Transformers: L’Ultimo Cavaliere, la recensione di Roberto Recchioni: CITIZEN OPTIMUS PRIME

Transformers: L’Ultimo Cavaliere, la recensione di Roberto Recchioni: CITIZEN OPTIMUS PRIME

Di Roberto Recchioni

Steven Spielberg a proposito di Michael Bay: “Ha il miglior occhio sulla piazza quando si tratta dei livelli multipli dell’immagine

James Cameron, sempre parlando del regista dei Transformers: “Bay, proprio come me, ama il grande treno del set, come lo chiamo io: quelle produzioni enormi ed estremamente fisiche che sono pure la più grande sfida per un regista e che lui padroneggia meravigliosamente”.

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Mettiamo il caso che voi siate esperti di cinema. Gente che il linguaggio non solo lo ama ma che lo ha anche studiato, che ne conosce la storia e che, soprattutto, ha i mezzi per decodificarne le forme più complesse.
Mettiamo, invece, che un vostro amico sia un Simone il Semplicione, uno che il cinema lo fruisce come mero intrattenimento, che ha strumenti di decodifica limitati e che quindi trova “belle” le opere che capisce senza fare alcuno sforzo, mentre fa fatica a interpretare i film più stilizzati.
Adesso, facciamo che abbiate invitato Simone a casa vostra per una serata non impegnativa. Una pizza, una birra e un film, insomma, non un simposio sul cinema.
Cosa gli fareste vedere? 2001 Odissea nello Spazio? All’Ultimo Respiro? Il Deserto Rosso?
Molto probabilmente, no. Perché sono tutti e tre degli splendidi film ma hanno una curva di decodifica piuttosto ripida, sono cioè l’esempio di un cinema che non accetta compromessi e che veicola gran parte della sua semiotica attraverso le immagini e i suoni, prima ancora che attraverso la didascalica parola. Per la vostra serata con Simone il Semplicione, probabilmente scegliereste Steven Spielberg, perché Spielberg, quando è al meglio della sua forma, è un maestro capace di coniugare un linguaggio complesso a una fruizione facilitata, e fare contenti tutti.
Ma che c’entra questo lungo preambolo con Transformers: L’Ultimo Cavaliere – e con Michael Bay? C’entra, c’entra.
Mettiamola così: i molti youtuber, gli influencer, i vecchi tromboni della carta stampata e i giovani virgulti del web che negli ultimi giorni si sono scagliati con la bava alla bocca contro la pellicola e il suo regista, sono il corrispettivo di un Simone il Semplicione che è stato invitato a casa da un amico con la promessa di vedere un film fracassone, e si è ritrovato legato su una poltrona con gli occhi tenuti aperti con dei ganci, costretto a guardare un delirio visivo sulle note di Ludovico Van sparate al massimo del volume possibile. È assolutamente normale che abbia reagito male all’esperienza: non era preparato. Non aveva gli strumenti critico-analici necessari per capire cosa stava vedendo e, in più, si aspettava tutt’altro.

Ma quindi, sto forse paragonando Michael Bay a Stanley Kubrick?
Sì, lo sto facendo.
E adesso che ho aperto in maniera sobria, andiamo avanti con la recensione.

DI CHE PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI MICHAEL BAY.

È il 1995 quando Bay irrompe nei cinema di tutto il mondo con Bad Boys. Ai più sembra un marziano venuto da chissà dove, quelli attenti invece sanno che c’è la sua mano dietro alcuni video musicali che hanno fatto la storia dell’Hard Rock e del Pop negli anni ‘80.
Bad Boys, in origine, è un filmetto da pochi soldi e di ancora minori pretese: una parodia di Miami Vice con due comici neri a interpretare degli pseudo Sonny e Rico.
Questo sulla carta, perché Bay prende lo script e lo stravolge: riduce al minimo tutte le parti da commedia degli equivoci con Boldi e De Sica, e sottopone a un trattamento di steroidi tutti gli aspetti legati all’azione e al movimento. Il risultato è che una commedia da diciannove milioni di dollari diventa un action movie che sembra costarne cento e che al botteghino ne incassa sessantacinque. Grazie alle riprese di Bay, inoltre, Will Smith passa dall’essere un giovane comico televisivo e star del rap a stella di Hollywood e sex symbol.

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Bad Boys è un buon film con molti punti di forza (l’impatto visivo, la resa dinamica, il montaggio, la colonna sonora) e alcuni limiti (tutti dovuti al disinteresse di Bay per le scene di dialogo e commedia). Ha pure alcuni evidenti e pesanti debiti stilistici con il cinema di James Cameron e dei fratelli Scott, anche se è chiaro sin da subito che il suo regista abbia una voce propria e un suo stile forte e preciso. Voce e stile che, nella pellicola successiva, vengono pienamente alla luce. Il film è The Rock. Questa volta ci sono i soldi (settantacinque milioni), ci sono i divi (Nicolas Cage e Sean Connery) e c’è un buonissimo script. Bay tira fuori il meglio di sé e definisce i punti della sua grammatica (le riprese circolari e dal basso sui protagonisti, gli elementi in movimento su assi diversi in infiniti livelli di parallasse, la composizione pittorica delle inquadrature a mezza via tra Norman Rockwell e un pazzo strafatto di crack). Sul piano tecnico, il film è inappuntabile, su quello narrativo, ha un equilibrio che non sarà poi molto comune nella filmografia del regista. Al botteghino fa il delirio. Passano due anni e Bay manda in sala un colossal catastrofico con cast All Star, nella tradizione di pellicole come L’Inferno di Cristallo e Airport. Il film è Armageddon e quasi non varrebbe la pena di parlarne visto il successo planetario. Limitandoci allo stretto necessario, possiamo dire che Bay paga il suo debito con la Hollywood degli anni d’oro e cucina una gigantesca torta di mele riempita di anfetamine. Il film batte il record di stacchi complessivi di montaggio (che fino a quel momento, apparteneva al Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah) e strapazza il box office. È Michael Bay Mania.

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Pearl Harbor, la pellicola successiva, si rivela però un mezzo flop. Non tanto a livello d’incassi quanto di entusiasmo generato. Non è una pellicola più stupida o meno impattante sul piano visivo delle precedenti (Spielberg in persona fa i complimenti a Bay per le riprese sui caccia giapponesi), ma gli manca quella vena di esagitata follia, quel ritmo concitato, quel tocco di spregiudicato edonismo, quel mood da “suoniamo l’arpa e ci facciamo di coca mentre il mondo brucia” che avevano caratterizzato le sue opere precedenti. Ma Bay si fa perdonare con la sua opera successiva: Bad Boys II, un film così esagerato, privo di gusto e folle, da diventare paradigma, apice e pietra tombale di quel genere action sorto nella seconda metà degli anni ‘80, esploso nei ‘90 e morto nei primi anni del 2000. Un film dove automobili di lusso reali vengono lanciate lungo l’autostrada da un camion in corsa, dove cadaveri imbottiti di droga vengono prima manomessi dagli eroi protagonisti e poi gettati anche loro in mezzo al traffico, dove c’è un piano sequenza di sette minuti attorno a un tramezzo, dove tutti i colori sono così saturi che quando finisce il film ti pare che il mondo fuori sia una cosa morta e decomposta. Bad Boys II rappresenta un punto di svolta preciso nella filmografia di Bay: è la prima volta che il regista abbandona ogni timore e rifiuta qualsiasi compromesso, dove lo script è vissuto come orpello noiosamente necessario ma assolutamente non limitante e l’unica cosa che conta è l’occhio cinema del regista, che è sempre più grande, sempre più ambizioso, sempre più estremo.

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In sostanza: Bay sta diventando “strano”, “imprevedibile”, “difficile”. I suoi film continuano a incassare tanto ma la facile empatia con lo spettatore che sapevano generare titoli come The Rock o Armageddon si è persa e il pubblico è tenuto agganciato solo in funzione della spettacolarità della messa in scena, perché il resto è sperimentazione e provocazione pura.
Bay deve rendersene conto perché prova a fermarsi. Lascia i suoi produttori storici e gira un film in cui, per metà del tempo, cerca di interpretare il ruolo di un regista “normale” che vuole raccontare una semplice storia di fantascienza con stile e sobrietà. Poi si annoia e nella seconda metà della pellicola fa esplodere anche i cestini della carta. Il film è The Island e l’unica ragione per andarselo a vedere oggi è perché è una rappresentazione precisa della battaglia schizoide che Bay conduce con sé stesso. La battaglia tra la cinica ragionevolezza e la più spregiudicata autorialità.
Ed è a questo punto che arriva Spielberg, il maestro dell’equilibrio di cui parlavamo prima. Come produttore esecutivo del primo Transformers, Spielberg si fa carico del difficile compito di riuscire a incanalare solo dove serve la follia estremista e visionaria di Bay.
E ci riesce.

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Tra tutti i film del regista, assieme a The Rock e Armageddon, il primo capitolo cinematografico dei giocattoli della Hasbro è quello che riesce meglio a creare un contatto empatico con il pubblico, lavorando sui personaggi e sui toni dell’eroismo e della commedia.
Bay ascolta Zio Spielberg e il risultato è un film perfettamente equilibrato.
Il problema è che appena Steven si allontana, Michael ricomincia a battagliare con i suoi demoni.
Il secondo Transformers è un disastro in cui si alternano momenti di commedia malamente fraintesa ad attimi esplosivi di una spettacolarità castrata.
Il Michael Bay regista di Transformers: La vendetta del caduto non è cane, non è lupo, sa solo quello che non è.
Persino Turturro ci fa brutta figura in questo secondo capitolo (e per far fare una brutta figura a John Turturro ce ne vuole). È chiaro che questa non è la strada da seguire.
Bay ha davanti a lui due scelte: tornare alla misura dei primissimi tempi e non sgarrare più, o lasciarsi andare alla sua Visione. Fortunatamente decide di lasciarsi andare.
Transformers 3 è un pezzo di video-art lungo quasi tre ore e, incidentalmente, proiettato nei cinema invece che nei musei di arte contemporanea. Un delirio audio-visivo senza precedenti che Enrico Ghezzi definisce come “Uno dei migliori film del 2011, animato da una sensibilità goethiana, nato dallo stesso sgomento rispetto alla facilità della mutazione!” e che il New York Times celebra come un film post-umano e lo accosta alla visionarietà cronenberghiana.
I primi venti minuti sulla Luna sono un omaggio kubrickiano di rara pulizia e perizia mentre l’ultima ora di film definisce, una volta e per sempre, il concetto di “BAYHEM”.
È arrivato il momento di riposarsi con un film piccolo e un bello script.
Il film è Pain & Gain, non esplode quasi nulla, Dwayne “The Rock” Johnson regala l’interpretazione della vita e se il film fosse firmato Coen tutti si spellerebbero le mani nei festival. Ma il film è firmato Bay, quello delle bandiere americane che sventolano e delle cose che saltano in aria, e la critica decide di far finta che non esista.
Bay torna ai suoi robottoni. Quarto giro di giostra. Svogliato in tutto, tranne che nella assurda battaglia finale con dinosauri e robot. Sembra finito un ciclo.
Altro film “piccolino”, 13 Hours. Nessun divo. Storia controversa e smaccatamente repubblicana in una Hollywood sempre più polarizzata nell’area democratica. Bay regala al cinema un trattato sulla gestione dello spazio e del tempo che andrebbe studiato nelle università ma, anche qui, si preferisce far finta di non vederlo.
E arriviamo all’oggi, a Transformers: L’Ultimo Cavaliere.
Uno dei film più estremi che siano mai stati proiettati nei cinema.
Ma di questo parliamo dopo, prima dobbiamo chiarire altri due punti.

MA MICHAEL BAY È DAVVERO UN REGISTA ACTION?

Se lo fosse, sarebbe difficile accostarlo con i grandi autori di cinema in senso assoluto.
Se ci riflettete, nessuno nome storico della cinematografia mondiale è mai definito in stretta relazione con un genere. Per quanto la filmografia di Ford sia principalmente legata al genere western, nessuno lo liquiderebbe mai come “un regista di western”. Alla stessa maniera Wilder non è “un regista di commedie”, o Kurosawa “un regista di chanbara”. I grandi registi trascendono il genere anche quando il genere lo frequentano parecchio. E la definizione di “regista action” a Bay sta decisamente stretta. Nei film di Bay ci sono sparatorie? Sì, certo. Ma non sono insistite come si potrebbe pensare. Ci sono e durano il giusto, ma non siamo nemmeno vicini alle parti di un John Woo, per dire. Nei film di Bay ci sono combattimenti corpo a corpo? Anche qui, sì, ma non così tanti. Persino nella saga dei Transformers, dove i robottoni sembrano scegliere la via della rissa ogni volta che gli è possibile, non abbiamo lunghe coreografie di scazzottate. Ma allora perché i film di Bay sono sempre percepiti come così dinamici? Per il movimento. Non c’è niente che stia mai davvero fermo nei film di Bay. Ogni shot di un suo film comprende, quasi sempre, almeno due o tre movimenti di camera contemporanei, a inquadrare un numero variabile di soggetti che, posti su una moltitudine di livelli diversi, si muovono lungo vettori differenti. Una roba che farebbe tremare le gambe a chiunque e che Bay gestisce, di solito, su set grandi come due stadi di football americano affiancati, popolati da centinaia di persone e squassati dalle esplosioni.
Un “cinema di movimento” più che un “action cinema”, che riporta agli albori primordiali del linguaggio, a quell’arrivo del treno che ha dato la genesi a tutto, e che vede tra i suoi maggiori esponenti gente come Michael Mann, Claude Lelouch, Jean-Luc Godard, i già citati Ford, Kurosawa e Spielberg, Sam Penkinpah, il miglior Friedkin, Tony e Ridley Scott, Alfred Hitcock, e i tanti altri maestri dell’estetica cinematografica sposata al racconto.
Quindi, Bay è un “regista action”? No, non direi. È un artista che si esprime nella forma del linguaggio cinematografico più puro, quello che rifiuta le influenze degli altri medium come la letteratura (uno script gli interessa solo nella misura delle cose in movimento che gli permetterà di girare), il teatro (Bay va d’accordo con i grandi caratteristi ma non nutre nessun interesse a lavorare con gli attori che, anzi, ignora o bistratta) e la televisione (il suo occhio è troppo grande).
La sua idea di cinema è quella purissima ed estrema delle sole “belle immagini in movimento”, il resto è solo una mal tollerata concessione alle logiche commerciali che vogliono che un film abbia una qualche “trama articolata, consequenziale e vagamente logica”.
Trovatemi qualcosa di più puro e autoriale di un atteggiamento del genere.

MA PERCHÉ MICHAEL BAY È TANTO ODIATO?

Prima di tutto perché è tremendamente frainteso.
È visto come il massimo esponente del “film commerciale americano” quando, invece, le sue opere sono un rischio commerciale evidente. I suoi film costano tanto e anche quando incassano bene (cioè: sempre), hanno una forchetta di guadagno molto meno ampia di quella che può avere una produzione media. Per capirsi, si guadagna di più e si rischia molto di meno producendo un film di medio calibro Marvel che una pellicola di Bay. Inoltre, a differenza della maggior parte dei film realmente commerciali, Bay non blandisce il suo pubblico. Non cerca di far sentire intelligenti o profondi gli spettatori che sono andati a vedere un film di pupazzi che si menano ma gli sbatte in faccia che quello che stanno vedendo è esattamente un film di pupazzi che si menano e che nessun approfondimento psicologico verrà a redimerlo.
Come ha detto bene Alan Moore in una recente intervista, in un’epoca dominata da nerd che cercano disperatamente di dare una profondità al proprio backgroud culturale, e che si lanciano in ridicole esegesi di ogni amabile stronzata di cui si nutrono, il non prendere sul serio “la materia di cui sono fatti i sogni” è un crimine punibile con il confino in quel di Mantova, come minimo.
Infine perché, e qui torniamo al discorso iniziale, il cinema di Bay non è di decodifica immediata. Per capire davvero il suo tratto autoriale bisogna accettare che la gran parte delle opere che fruiamo (e che amiamo) in questi tempi mediocri, sono un cibo parzialmente pre-digerito che ci viene imboccato come fossimo bambini. La dittatura della narrazione che le serie televisive hanno imposto ci ha imbarbarito come consumatori di narrazioni articolate per immagini, e non è un caso che serie televisive becere sotto il profilo dei valori produttivi, visivi e registici, siano invece celebrate in funzione di storie coerenti e didascaliche. Aggiungiamoci pure che non sono le esplosioni a fare grande il cinema di Bay ma è l’ampiezza della sua visione, che non potrà mai essere contenuta dentro lo schermo di un portatile, di uno smartphone o di un tablet, e il quadro è completo.

E INFINE… TRANSFORMERS: L’ULTIMO CAVALIERE

Prendete quanto detto fin’ora.
Moltiplicatelo per dieci.
E avrete una vaga idea di un film che è impossibile immaginare fino a quando non lo si è visto.
Bay decide di chiudere con il botto e realizza una pellicola di due ore e mezzo che è in realtà uno showreel di tutto quello che sa fare, portato ai massimi livelli, applicandolo ad ogni genere possibile.
Il film si apre in uno scenario medievale-fantasy, con una battaglia tra cavalieri e barbari.
Ed è la cosa più impressionante mai girata a riguardo.
Poi diventa il film di Metal Gear Solid 4. Il più bel film di Metal Gear Solid 4 che si potrà mai girare. Poi diventa un western con i dinosauri ambientato in una discarica. Poi un film di James Bond. Poi Abyss. Poi Aliens. Poi un film di fantascienza nello spazio. Poi Armageddon. Poi un film di guerra in stile Salvate il Soldato Ryan. Poi, giusto alla fine, un classico film dei Transformers.
E ogni segmento è, semplicemente, annichilente per messa in scena, qualità delle immagini, uso degli effetti e regia. C’è un solo problema: il fatto che questi segmenti siano collegati è del tutto incidentale. Fossero messi in ordine diverso, non cambierebbe assolutamente nulla. Non è che il film ha un brutto script: il film non ha nessuno script. È, semplicemente, la messa in scena filmica di un ragazzino che gioca sul tappeto con tutti i giocattoli che ha attorno, mescolandoli senza alcuna logica, seguendo solamente il bisogno di divertirsi. E Transformers 5 diverte e anche tanto, sul piano più elementare. Ma è sugli altri piani che impressiona e sovrasta.
Non c’è un singolo aspetto visivo del film che non sia splendido e, allo stesso tempo, terribile.
Sul serio: ho visto tanto cinema, e ne ho visto tanto all’interno della categoria a cui T5 dovrebbe appartenere, ma niente mi ha preparato allo spettacolo che Bay ha saputo mettere in scena.
Decine di location, un mucchio di personaggi, tonnellate di gag senza senso, esplosioni, combattimenti, mezzi militari, riprese impossibili, scene del tutto inutili, e mai un attimo per respirare e guardarsi attorno. O per annoiarsi, perché c’è sempre qualcosa da vedere. Sempre.
Questo non è un film, questo è un assalto sensoriale continuo, una volgare dimostrazione di potere, un attacco terroristico alla ragionevolezza e alla misura.
Un film che non potrete mai consigliare ai vostri amici a meno che non siate proprio certi che sono in grado di capirlo.
Transformers: L’Ultimo Cavaliere è il capolavoro e l’opera massima di un genio, e la cattedrale costruita da un pazzo.
Nessun compromesso.
Nessun passo indietro.
Nemmeno davanti all’apocalisse.
Bayhem per sempre.

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