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La prosecuzione di Twin Peaks dimostra che persino il concetto di “narrazione episodica” perde importanza davanti alla nuova creatura di David Lynch. Certo, anche questo revival è suddiviso in puntate, ma si tratta più che altro di una convenzione linguistica, di un espediente televisivo legato al suo format d’origine, cui l’autore deve sottostare per esigenze di programmazione. Eppure, alla luce di queste prime quattro “parti”, è chiaro come Lynch prediliga l’idea di un torrente visivo dove le idee si sviluppino per conto proprio, fluendo le une nelle altre (o le une dalle altre) secondo quelle tecniche di meditazione trascendentale che il regista utilizza ormai da tempo per la concezione delle sue opere. Ciò che ne deriva – e questo risulta ancor più evidente nella nuova serie di Twin Peaks – è un prodotto che non si può semplicemente guardare, bensì esperiere o sperimentare, alla pari di molti suoi film.
Per questa ragione, sintetizzarne la trama pare un esercizio tedioso e futile, ma è necessario illuminarne almeno gli snodi principali. La terza puntata ci riporta nel misterioso limbo dove si trova Dale Cooper (Kyle MacLachlan), che entra in una struttura metallica sospesa nel cosmo e incontra una donna con le orbite sigillate, mentre un’entità minacciosa cerca di sfondare la porta; la qualità allucinatoria dell’intera sequenza, con il suo amalgama di tecniche diverse, è altissima. La donna sale sul tetto della struttura, attiva una leva e cade nel vuoto; la leva potrebbe aver liberato il “mostro” di cui sopra, forse la stessa entità spettrale che ha ucciso i due amanti nella stanza del cubo di vetro, a Manhattan, ma ovviamente non ci sono certezze su questa interpretazione. Comunque, Cooper vede la testa di Garland Briggs (Don S. Davis) che galleggia nello spazio, ed essa pronuncia le parole «Blue Rose», ovvero l’espressione che, nel gergo dell’FBI in Twin Peaks, indica un genere molto specifico di casi da indagare, probabilmente quelli legati al sovrannaturale. Rientrato nella struttura, Cooper incontra un’altra donna che sembra volerlo proteggere dal “mostro”, e che lo aiuta a trovare la strada per tornare sulla Terra: il nostro eroe si materializza così in una casa di Las Vegas, prendendo il posto di un altro suo Doppelgänger chiamato Dougie Jones, che invece viene proiettato nella Loggia Nera. MIKE gli dice che la sua esistenza era stata confezionata per uno scopo molto specifico (permettere a Cooper e Dark Cooper di esistere sulla Terra nello stesso momento), e ora quello scopo è stato soddisfatto; di conseguenza, Dougie scompare, e MIKE prende il suo anello.
Cooper è quasi catatonico, come se dovesse imparare nuovamente a parlare e rapportarsi col mondo, ma viene aiutato da Jade (Nafessa Williams), la prostituta con cui Dougie si era appartato. Jade lo accompagna fino a un casinò, dove Cooper si aggira disorientato, ma vede una serie di curiose fiammelle – con i colori della Loggia Nera – che fluttuano sopra alcune slot machine, e capisce di poter vincere molto denaro giocando in quelle postazioni. L’espressione urlata da Cooper ogni volta che vince il jackpot – «HELLO-O-O-O» – è già diventata virale, e questo la dice lunga sull’effetto che Lynch può ancora esercitare sull’immaginario collettivo.
Intanto, come conseguenza del ritorno di Cooper sulla Terra, Dark Cooper si sente male durante un viaggio in automobile, fa un incidente e vomita una quantità inusitata di Garmonbozia, la sostanza che serve da cibo per gli abitanti della Loggia Nera, manifestazione fisica del dolore e della sofferenza (nonché simile alla crema di mais: i piatti della tradizione americana, soprattutto quella più popolare, occupano un posto speciale nel cuore di David Lynch). L’auto viene trovata da una pattuglia della stradale, che arresta Dark Cooper per il contenuto sospetto – tra cui una mitragliatrice – del suo bagagliaio. Tornando al Cooper originale, una limousine lo riporta a casa grazie alle indicazioni di un amico di Dougie, e sua moglie Janey-E (Naomi Watts) lo aggredisce per essere scomparso in quel modo. Il suo umore cambia, però, quando vede che Cooper/Dougie le consegna una sacca piena di soldi, utili per ripagare un debito di cui Janey-E non fornisce i dettagli: d’altra parte, questa non è la televisione didascalica a cui siamo a abituati, quindi la donna non ha alcuna ragione di entrare nello specifico mentre parla con suo marito. Il giorno dopo, Cooper stabilisce subito un rapporto con il figlioletto di Dougie, e sembra risvegliarsi improvvisamente solo quando beve – sputandolo, perché bollente – una tazza di caffè. L’ironia tipicamente lynchiana di questo segmento è deliziosa, e Kyle MacLachlan è bravissimo a interpretare il buffo spaesamento di Cooper, tra Rain Man e Forrest Gump, ma con qualcosa dell’Henry Spencer di Eraserhead. In tal senso, Cooper si afferma come il prototipo dello spettatore di Lynch: naviga in una realtà (o un sogno) spesso incomprensibile, eppure ne accetta di buon grado le meraviglie più oscure, lasciandosi guidare da esse. Invece di fuggire, si addentra sempre più a fondo nella narrazione, per quanto rarefatta o paradossale.
Parallelamente, Gordon Cole (David Lynch) e Albert Rosenfield (Miguel Ferrer) ricevono notizia del ritrovamento di Dark Cooper, che loro credono essere il Cooper originale. Insieme all’agente Tamara Preston (Chrysta Bell) si recano in South Dakota per parlargli, ma prima Gordon incontra Denise Bryson (David Duchovny), divenuta il Chief of Staff dell’FBI, e le dichiara il suo profondo rispetto. Il successivo dialogo tra Gordon e Dark Cooper è memorabile: il primo è spiazzato dalla sorpresa, il secondo è paralizzato dalle sue stesse menzogne, e parlano senza mai comunicare realmente, mentre la ripetizione meccanica di alcune frasi da parte di Dark Cooper è indispensabile per delineare l’assurdità della situazione. Dark Cooper, sparito per 25 anni dai radar del Bureau, sostiene di aver lavorato sotto copertura per conto di Phillip Jeffries (ovvero David Bowie in Fuoco cammina con me), ma nessuno gli crede. «Devo ammetterlo, non capisco per niente questa situazione» dice Gordon, esprimendo il pensiero implicito dello spettatore. «Blue Rose?» chiede Albert, mentre l’inquadratura verte inspiegabilmente sul blu. «Non potrebbe essere più blu di così» replica Gordon, facendo coincidere ironicamente forma e contenuto, come se volesse deridere le aspettative del pubblico su ciò che è o non è Twin Peaks; tale scena, per intenderci, è MOLTO Twin Peaks… pure troppo, se vogliamo parafrasare il vecchio Thomas Prostata. Questo perché Lynch vuole giocare a rimpiattino con i fan, dando loro ciò che si aspettano (si pensi anche alla precedente scena di Cooper con il caffè) salvo poi sbeffeggiarne le pretese, e ribadire che ora Twin Peaks è tutta un’altra cosa.
Altra sequenza esemplare è quella che si svolge nel dipartimento dello sceriffo, quando il Capo Vice Sceriffo Hawk (Michael Horse) riesamina i vecchi indizi su Laura Palmer (Sheryl Lee) per decifrare la profezia della Signora Ceppo (Catherine E. Coulson), e il Vice Bobby Briggs (Dana Ashbrook) scoppia in lacrime non appena vede la foto della ragazza, con il celebre Tema di Laura in sottofondo. «Rievoca vecchi ricordi» si giustifica Bobby, dando voce – di nuovo – al pensiero dello spettatore. Ma è sufficiente l’apparizione di Wally (Michael Cera), ovvero l’amato figlio di Lucy (Kimmy Robertson) e Andy (Harry Goaz), per ristabilire le distanze: vestito e motorizzato come Marlon Brando ne Il selvaggio, Wally chiede di parlare con lo sceriffo Frank Truman (Robert Forster) per rendere omaggio al suo fratello malato, Harry, co-protagonista delle prime due stagioni; ciò che ne risulta è uno splendido, delirante monologo in cui il ragazzo dichiara che il suo Dharma è nella strada, e che i suoi bravi genitori possono sentirsi liberi di trasformare la sua camera in uno studio, perché ormai è tempo di guardare avanti. Fin troppo facile vederci una dichiarazione programmatica della nuova serie, no? Facile, ma probabilmente vero: Twin Peaks si è emancipata dalla sua vecchia natura di soap opera / mistery / procedural, ed è libera di diventare quell’oggetto misterioso che abbiamo fra le mani.
In effetti, è spesso difficile individuare una banale cesura tra gli episodi, tant’è che essi si chiudono sempre con una performance musicale sul palco del Bang Bang Bar, apparentemente slegata ed estemporanea rispetto a tutto il resto. Anche l’utilizzo dei cliffhanger – come quello in cui Gordon dichiara di voler chiedere l’aiuto dell’unica persona che possa capire Dark Cooper, alla fine della quarta puntata, senza rivelarci chi sia – è solo un espediente che schernisce le regole della narrazione seriale, simulando l’accettazione dei suoi codici. In realtà, Lynch si muove al di fuori di essi, all’esterno di qualunque moda o tendenza, ma creando il suo tempo e il suo spazio. Anche per questo motivo, non ha senso aspettarsi una risoluzione didascalica delle trame o dei misteri, né tantomeno una razionalizzazione dell’intreccio: quello che conta è l’esperienza, un racconto liquido che amalgama fra loro i registri più diversi (il macabro, il comico, l’investigativo) e mette a disagio chi ritiene che coinvolgimento e straniamento siano per loro stessa natura inconciliabili. Lynch dimostra che non è così, e che la combinazione delle due reazioni è tanto scioccante quanto irresistibile.
Voto: ★★★★★
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