Song to Song – La recensione del film di Terrence Malick

Song to Song – La recensione del film di Terrence Malick

Di Lorenzo Pedrazzi

Quello di Terrence Malick è un cinema sempre più polarizzante, causa di grande frustrazione o di pari entusiasmo, in grado di coagulare attorno a sé non solo due visioni critiche contrapposte (e forse inconciliabili), ma anche un vocabolario stereotipato che parla di “macchina da presa ondeggiante”, “narrazione rarefatta” e altre caratteristiche ricorrenti. Non c’è dubbio che, a partire da The Tree of Life, il regista americano sia rimasto fedele a un determinato stile (mdp che si libra tra i personaggi, frammenti di dialoghi interrotti sul più bello, voce extradiegetica…), ma soffermarsi soltanto su questa reiterazione figurativa sarebbe un grosso limite, e si rischierebbe di scivolare in quel cliché – ormai logoro e abusato – che tende ad archiviare i suoi ultimi film sotto la medesima etichetta, perché “tutti uguali”.

Song to Song Michael Fassbender foto dal film 3

È vero, anche Song to Song rispetta questo impianto visivo. Gli intrecci romantici tra il musicista BV (Ryan Gosling), la cantautrice Faye (Rooney Mara), il produttore Cook (Michael Fassbender) e la cameriera Rhonda (Natalie Portman) sono raccontati per brevi sequenze, spesso autoconclusive, dove il voice over si fa espressione dei sentimenti e delle riflessioni più intime, mentre la storia procede per frammenti fugaci, parziali e incompleti come la memoria stessa. I quattro personaggi cercano amore e gloria nella scena musicale di Austin, città vibrante che li inghiotte come la Los Angeles di Knight of Cups, altrettanto cementificata ma più “vera”, più passionale: una foresta di geometrie squadrate (i palazzi, gli appartamenti open space) in cui gli amanti cercano sempre quell’orizzonte dove il sole è perennemente basso, tagliato da una linea che prosegue all’infinito. Ci sono gli ingredienti canonici di un quadrilatero amoroso – Faye, ex dipendente di Cook, va ancora a letto con lui mentre frequenta BV – ma Malick se ne serve solo in quanto archetipi narrativi, espedienti basilari per costruire la storia. Ciò che lo interessa, piuttosto, è coreografare l’interazione tra i personaggi come una danza perpetua, da cui deriva la scelta degli attori: l’esile delicatezza di Rooney Mara e Natalie Portman ricorda l’eleganza delle ballerine classiche, mentre Ryan Gosling e Michael Fassbender sono due solidi “portatori” capaci di sollevarle in aria con facilità e manipolare dolcemente i loro corpi. Presi nel flusso sensuale della musica, si spostano “di canzone in canzone” tra festival, viaggi, locali, giardini ed enormi magioni, spesso entrando in una dimensione ludica che impone di non fermarsi mai.

Song to Song Rooney Mara Ryan Gosling foto dal film 5

Malick sembra qui ritrarre l’intera esistenza come un vagabondaggio erratico, nel tentativo di riempire lo scarto tra le speranze degli uomini e le reali condizioni in cui si trovano a vivere: mai come in questo caso, si conferma un regista-demiurgo che tesse il destino dei protagonisti e li osserva da vicino, scendendo al loro livello. Non c’è la contemplazione estatica di The Tree of Life, To the Wonder e Voyage of Time, ma nemmeno il disincanto di Knight of Cups; in compenso, Song to Song allestisce un poema eterogeneo che si parcellizza non solo nel montaggio delle immagini, ma anche nella sua polifonia musicale, con una ricchissima colonna sonora di cui è quasi impossibile tenere il passo. Questo torrente acustico-visuale talvolta asseconda la “danza” dei personaggi, talvolta la sconfessa e segue un ritmo autonomo, ma senza mai dimenticare la centralità dei loro corpi. L’unicità di Malick, con il suo esasperante ma straordinario lirismo, sta nell’impulso irrefrenabile a costruire immagini che non sono mai “normali”, non cedono mai alla banalità di un campo-controcampo o di altri cliché linguistici; al contrario, il suo cinema diventa il cliché di se stesso, si fagocita da solo e crea autonomamente il suo “senso”, continuando a inventare nuove stratificazioni all’interno delle proprie regole; e va bene così, poiché in questo risiede la sua eccezionalità.

Song to Song Natalie Portman Michael Fassbender foto dal film 3

Non a caso, il cineasta persevera a macerarsi nelle sue ossessioni, ma riesce sempre a inquadrarle da un’angolazione diversa. In Song to Song, rispetto alla fisicità “materica” di Knight of Cups, c’è il ritorno a un sentimento etereo e idealizzato: la celebrazione della semplicità e dell’amore, il recupero di una vita genuina che riavvicini alla terra, possono sembrare concetti ingenui o stucchevoli – e probabilmente lo sono – ma trovano giustificazione in quell’inno alla purezza che talvolta è prerogativa dei geni, come accade in alcuni racconti di David Foster Wallace (si pensi a È tutto verde o Solomon Silverfish) e in certi classici ottocenteschi dalla fortissima fibra morale (Dickens su tutti). Malick spoglia il sentimento da tutto ciò che lo ha contaminato nel corso degli ultimi decenni (l’ironia, il post-moderno, la disillusione) e lo denuda fino alla sua purezza metafisica, primigenia e “iperuranica”; non più un amore, ma l’Amore, come idea eterna e assoluta: il particolare che diventa universale. Certo, nell’accumulo di storie e personaggi si rischia di tralasciare qualcosa, e non tutti gli snodi narrativi sono trattati con la medesima cura: sembra quasi che Malick faccia un passo indietro quando deve affrontare ciò che esula dall’ordinario (o dalla sua idea di ordinario), e diventi più timido e incompiuto, ansioso di tornare sui binari del suo apologo sentimentale. In tal senso, è un peccato che il corpo e il volto di Natalie Portman appaiano quasi sacrificati sull’alterare del luciferino Michael Fassbender, corruttore poliedrico e guascone che allontana le sue vittime dal candore della vita quotidiana, promettendo gloria e successo.

Song to Song foto dal film 6

Quello che conta è però l’orizzonte sconfinato davanti a cui gli amanti coronano il loro legame, emblemi universali di speranza e utopia. È li che la poetica di Malick può trovare pace, ma il regista sa bene che l’orizzonte è una linea illusoria e irraggiungibile: per questa ragione – proprio come i personaggi di Song to Song – il suo cinema non ha alcuna intenzione di fermarsi, diventando compulsivo e prolifico come non lo è mai stato. La macchina da presa continuerà a fluttuare tra i corpi danzanti, mentre la narrazione non sarà mai racchiusa entro limiti precisi: l’orizzonte, si sa, è troppo ampio.

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