Quando negli anni ’60 Walt Disney immaginò la costruzione di Disneyland alla periferia di Orlando, non si accontentò di un parco di divertimenti, ma una vera e propria città fatta di residence, ristoranti e centri commerciali. Tutto estremamente colorato, tutto a prima vista molto Disney. Ciò che ne uscì fu, a parte la zona luna park, una delle zone più degradate del sud est degli Stati Uniti: il Florida Project, per l’appunto. Proprio qui, dove l’asfalto bollente delle strade fa tremare ogni sguardo dato in profondità e il massimo a cui si può aspirare per un sabato sera piacevole è assistere ad una rissa il sabato sera vive Moonee, sei anni, assieme alla mamma poco più che maggiorenne. Moone passa le giornate guardando per tv o vagando libera per la zona, a volte accompagnata da altri ragazzini del quartiere, a volte da sola. È difatti abbandonata a sé stessa, non si rende conto della situazione di disagio in cui si trova a vivere, non conosce la differenza con un’infanzia “normale”. L’immaturità della madre, anche lei vittima di chissà quale adolescenza, porterà la bambina ad un graduale peggioramento del già precario equilibrio precostituito.
Presentato alla Quinzaines des réalisateurs del Festival di Cannes, Florida Project ha alcuni elementi tipici dei film indipendenti “alla Sundance”: una famiglia problematica raccontata dagli occhi di un bambino, la periferia americana, l’assenza di personaggi estremamente positivi e una critica più o meno esplicita ai valori capitalistici della società statunitense contemporanea. Ciò che c’è di diverso è il ritmo del racconto. Baker lavora per accumulo. Per buona parte del film non c’è nessuna evoluzione dei personaggi, a partire da Moone, messa al centro delle più disparate e assurde situazioni di disagio sociale senza che ne sembri apparentemente scalfita. Tutto è normale visto dalla sua prospettiva. Ogni pomeriggio di bighellonaggio si chiude su sé stesso. Non ha ripercussioni. Domani sarà un altro giorno. Guardandone le reazioni non si può fare a meno di sorridere malinconicamente e sperare che alla fine tutto vada bene, che la sua spensieratezza non venga mai scalfita. Il finale contraddice questa maschera sia da un punto di vista narrativo che visivo. Baker, fino a quel momento trattenuto, si lascia andare – così come la sua protagonista – ad un momento di regia “sopra le righe” capace di rendere universale il particolare. Ciò che era latente, la sofferenza della protagonista così come la vicinanza a quel parco di divertimenti sempre solo evocato e mai visto, diventa improvvisamente centro. E, improvvisamente, gli occhi di Moone sono quelli di tutti noi.
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