Guardiani della Galassia: Vol. 2 – La recensione del film di James Gunn

Guardiani della Galassia: Vol. 2 – La recensione del film di James Gunn

Di Lorenzo Pedrazzi

C’è un celebre verso di Father and Son dove Cat Stevens (o Yusuf Islam, come si fa chiamare oggi) adotta la voce del “figlio” e confessa l’esigenza di andarsene, seguire gli impulsi della sua anima inquieta ed emanciparsi dalla famiglia che l’ha cresciuto, nonostante il padre lo esorti a riflettere sui vantaggi di una vita tranquilla. Ovviamente il brano fa parte della colonna sonora di Guardiani della Galassia: Vol. 2, e quando vedrete il film capirete la sua importanza nella sceneggiatura di James Gunn, cineasta brillante che – oltre a imporsi come la voce più originale del Marvel Cinematic Universe – di certo non seleziona la sua tracklist per puro caso.

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L’idea del distacco è il perno su cui ruota l’intera trama, insieme alla contrapposizione tra padre biologico e padre di cura, due figure non sempre coincidenti nella vita di una persona. Peter Quill (Chris Pratt) non ha mai conosciuto il suo padre biologico, ma questo misterioso uomo delle stelle si presenta da lui proprio nel momento del bisogno, quando i Guardiani della Galassia sono braccati dalla vendicativa Ayesha (Elizabeth Debicki) e dai Sovereign, superbi alieni dalla pelle dorata cui Rocket (Bradley Cooper) ha sottratto un bottino di gran valore. Peter scopre quindi che suo padre è Ego (Kurt Russell), il cosiddetto “Pianeta Vivente”, un antico Celestiale dagli immensi poteri; insieme a lui c’è Mantis (Pom Klementieff), aliena dolcissima che usa le sue capacità empatiche per assisterlo in diverse mansioni. Ebbene, Ego vuole mostrare a Peter la sua eredità, suscitando la diffidenza di Gamora (Zoe Saldana), che però accetta di seguirli sul pianeta di Ego in compagnia di Drax (Dave Bautista), mentre Rocket e il piccolo Groot (Vin Diesel) restano a bordo della Milano per provvedere ad alcune riparazioni. Quando anche Nebula (Karen Gillan), Yondu (Michael Rooker) e i Ravager entrano in gioco, la faccenda diventa ancor più complicata, e un inquietante mistero emerge in superficie.

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Raro caso di film targato Marvel Studios dove la visione del regista sopravanza quella della produzione, Guardiani della Galassia: Vol. 2 non è soltanto un degno sequel del film originale, ma anche la sua ideale “estensione” tematica e strutturale, un colossal che incarna l’eredità del cinema delle attrazioni e la rilancia verso nuovi orizzonti. Ormai è chiaro che James Gunn sia uno dei pochi registi capaci di confezionare blockbuster con un cuore pulsante, ricco di amore per i personaggi e per la storia che racconta: la sua sceneggiatura, calibrata al millisecondo nell’utilizzo della metonimia e dei rimandi interni, riesce a ricavare il giusto screen time per ogni personaggio, assegnando a ciascuno di essi un preciso ruolo comico, emotivo e/o conflittuale, talvolta amalgamando i diversi registri in un singolo carattere. Nessuno è superfluo ai fini della narrazione, anzi, ognuno svolge una funzione determinante sia per lo sviluppo sia per la risoluzione della vicenda. Ma il talento di Gunn è ancora più evidente nella gestione del climax, davvero esemplare nei momenti chiave del film, e in particolare quando utilizza alla perfezione la bellissima The Chain dei Fleetwood Mac. In tal senso, l’ottima integrazione tra i brani musicali e il racconto fa di Guardiani della Galassia: Vol. 2 una splendida opera pop, ancora più coerente e unitaria – nella sua commistione di elementi visivi, canori e narrativi – rispetto al primo capitolo.

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Ne risulta un’avventura interstellare che si concede il lusso di non fermarsi mai, splendidamente bilanciata nel montaggio alternato delle vicende parallele, dove Gunn imbastisce un dialogo (più che un contrasto) fra azione, umorismo ed emozione, attribuendo la medesima importanza a ognuna di queste sfumature. Lo spettacolo di policromie allucinate e panorami fantastici contraddice le attuali tendenze hollywoodiane in materia di “realismo”, privilegiando invece il godimento della meraviglia, lo stupore, l’incanto: il cinema delle attrazioni nella sua forma più onesta e cristallina, insomma. Aiuta il fatto che il regista sappia porsi sullo stesso livello della fan base, rielaborandone l’immaginario in una costellazione di riferimenti, citazioni e camei che richiederebbero una seconda visione per essere colti nella loro interezza; anche perché, di fatto, tali riferimenti influenzano l’identità stessa del film, calato nel grande retaggio della space opera più che in quello dei cinecomic, fatti salvi alcuni graditi risvolti “supereroistici” della battaglia finale. La condivisione del medesimo immaginario collettivo accomuna regista, pubblico e protagonisti, sempre immersi in un melting pot culturale che rispecchia la natura multiforme (e plurisensoriale) del nostro presente, alla pari delle sue tendenze nostalgiche. Lo si nota persino nella grafica dei titoli, con quei laser variopinti che replicano l’estetica degli anni Ottanta: nel gioco costante tra film e spettatore, i rischi connessi a questa maggiore autoconsapevolezza diventano ben percepibili, e riecheggiano in una comicità forse meno spontanea e più compiaciuta rispetto al passato, nonostante l’umorismo surreale di alcune gag resti intatto.

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Non si tratta però di un’opera fossilizzata nel suo feticismo, tutt’altro. Gunn dimostra una grande consapevolezza delle tecnologie digitali, che trasfigurano il film in un prodotto ibrido di animazione e live-action, capace di forzare i limiti della messa in scena con il travolgente piano sequenza dei titoli di testa, dove la CGI permette di giocare con la profondità di campo e con inquadrature impossibili. Il regista smentisce così la freddezza della “macchina” e le dona umanità, le conferisce poesia: il vertice di questo percorso coincide con l’epilogo, momento straordinario e sognante che trabocca di dolce lirismo, poiché mette in comunicazione immagini, suoni e parole con un trasporto che si vede raramente nei blockbuster hollywoodiani. Al culmine del coinvolgimento emotivo, mentre dà corpo al brano di Cat Stevens, il film dirime la secolare diatriba tra padre biologico e padre di cura: il sangue non conta nulla, i veri genitori sono quelli che ci crescono.

Guardiani della Galassia Vol. 2 Vin Diesel Bradley Cooper foto dal film 2

Nota in calce: se è buona norma godersi per intero i titoli di coda dopo un cinecomic dei Marvel Studios, in Guardiani della Galassia: Vol. 2 è indispensabile guardarli fino alla fine per garantirsi una fruizione completa ed esaustiva del film. Ci sono infatti ben cinque scene mid o post-credit, e inoltre i titoli stessi sono ricchi di piccole sorprese e easter egg che vi faranno aguzzare la vista. Da non perdere.

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