Lo diceva anche Kevin Williamson in Scream 4: i reboot, per loro stessa natura, tendono a stravolgere le regole del gioco. In particolare, l’horror è un genere estremamente codificato nei suoi tòpoi narrativi e rappresentativi, quindi il ritorno di una celebre saga dopo anni di silenzio non può limitarsi a ripetere le istanze del passato, ma deve riscrivere le regole del franchise per adeguarlo alle sfide del presente, pur omaggiandone la tradizione.
The Ring 3, nonostante la numerazione del titolo italiano, è un reboot più che un sequel, e in quanto tale cerca di “rifondare” la saga per un pubblico nuovo, abituato a un diverso tipo di fruizione rispetto alle nostalgiche VHS. Non a caso, l’età della protagonista rispecchia il target medio del film: Julia (Matilda Lutz) è una ragazza sui vent’anni che saluta a malincuore il suo fidanzato Holt (Alex Roe), partito per il college. Quando Holt scompare misteriosamente, Julia si mette sulle sue tracce, e scopre che stava lavorando con il professor Gabriel Brown (Johnny Galecki) su un progetto segreto: Gabriel, infatti, è entrato casualmente in possesso della videocassetta di Samara, e ha organizzato un team di ricerca per studiare i fenomeni paranormali connessi alla maledizione, in grado di aprire un portale per l’aldilà. Gli studenti guardano il filmato in versione digitale, lo copiano e lo mostrano a qualcun altro, in modo da continuare la catena ed evitare la punizione di Samara. Contattata da una ragazza di nome Skye (Aimee Teegarden) cui restano pochi minuti da vivere, Julia la segue a casa sua, ma un messaggio di Holt l’avverte di non guardare il video; scaduto il tempo, Samara esce dal televisore di Skye e la uccide. Holt si precipita da Julia e le spiega la situazione, rivelandole che anche lui ha visto il filmato. Julia decide quindi di guardare la sua copia per salvarlo, ma all’interno trova un nuovo video che rivela alcuni indizi sulle origini di Samara. I due ragazzi intraprendono un viaggio per bruciare le ossa della bambina e spezzare la maledizione.
Il regista F. Javier Gutierrez sfrutta la parcellizzazione dei sistemi di riproduzione – non più confinati al VHS casalingo, ma divisi tra cellulari, tablet e computer – per mettere in scena l’ubiquità spaziale di Samara, favorita dalla semplicità con cui è possibile non solo fruire un video, ma anche copiarlo e trasmetterlo al prossimo. D’altra parte, l’idea che la maledizione si diffonda come un virus informatico rispecchia il desiderio di aggiornare una saga che ha sempre fatto i conti con le ansie della tecnologia moderna: la cassetta, nell’originale giapponese di Hideo Nakata, incarna proprio lo scontro fra tradizione e contemporaneità che anima il paese nipponico, mentre i file video rappresentano l’impalpabilità di una minaccia che non ha più un’origine precisa, né una fonte materica su cui riversare il proprio odio e le proprie paure. Come la moltiplicazione incontrollata delle immagini su internet o la diffusione ossessiva di meme e fake news, anche la maledizione dei “sette giorni” si serve della rete per contagiare il mondo, diventando essa stessa virale.
Questa commistione fra tecnologia e sovrannaturale è simboleggiata dagli studi di Gabriel, che né Gutierrez né gli sceneggiatori (tra cui Akiva Goldsman) si preoccupano minimamente di spiegare: cosa facciano di preciso lui e i suoi studenti, oltre a guardare il video e trasmettere la maledizione ad altri malcapitati “ricercatori”, resta un mistero, e purtroppo i limiti della scrittura non si fermano qui. The Ring 3 brulica di snodi narrativi ingiustificati (la momentanea scomparsa di Holt) e forzature logiche stranianti (la sorte di Gabriel) che indeboliscono la trama e si riverberano sull’epilogo, farraginoso e a tratti estenuante. Anche la suspense ne risente, ma bisogna ammettere che il nuovo video di Samara sa essere piuttosto inquietante, poiché figlio delle sperimentazioni surrealiste di Luis Buñuel e David Lynch in Un Chien andalou e Velluto blu: entrambi i film, peraltro, sembrano esercitare un’influenza su alcune inquadrature, ma il confine tra citazione volontaria e riferimento casuale è molto sottile.
È un peccato che il resto non sia altrettanto disturbante, e che l’intreccio sia privo di costrutto. The Ring 3 cambia parzialmente i codici della saga, emancipa Samara dalle regole del VHS e aggrava la sua presenza nella vita delle vittime (al punto che l’intera realtà ne viene contagiata, con apparizioni profetiche e manifestazioni spettrali), ma la scarsa tensione lascia un senso di incompiutezza, come se il rilancio del franchise fosse troppo timido e fragile per attecchire di nuovo. Apprezzabili, di contro, l’ottima fotografia di Sharone Meir (lo stesso di Whiplash) e la performance del carismatico Vincent D’Onofrio, anche se il ruolo non gli rende pienamente giustizia.
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