Iron Fist – La recensione della prima stagione

Iron Fist – La recensione della prima stagione

Di Lorenzo Pedrazzi

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Ora che la prima stagione di Iron Fist è disponibile su Netflix, si può ragionare più lucidamente su questo esordio in live-action di Danny Rand (Finn Jones), che peraltro spalanca le porte al successivo cross-over The Defenders. Tra luci e ombre, la serie introduce un personaggio molto diverso da Daredevil, Jessica Jones e Luke Cage, immettendolo in un percorso formativo particolarmente tormentato.

ATTENZIONE: contiene SPOILER

Quando pensiamo a Danny Rand, non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di un ragazzo cui è stato negato il diritto di crescere in modo naturale, con un’infanzia interrotta troppo presto e un’adolescenza violata dal dolore. Rampollo della famiglia Rand, il dodicenne Danny è sopravvissuto all’incidente aereo che ha ucciso i suoi genitori sull’Himalaya, ed è stato adottato dai monaci di K’un L’un – città mistica che appare sulla Terra solo una volta ogni decade – per trasformarlo in un guerriero. Sotto la supervisione di Lei Kung il Tonante, si è sottoposto a un durissimo allenamento che lo ha trasformato nel nuovo Pugno d’Acciaio dopo aver sconfitto il drago immortale Shou Lao, ereditando così il ruolo di difensore di K’un L’un e nemico giurato della Mano. Di conseguenza, una volta tornato a New York per reclamare i suoi diritti sulla Rand Incorporated, Danny non è più bambino e non ancora uomo, perché digiuno di esperienze “reali”.

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Le linee guida del racconto sono proprio queste, e giustificano l’atteggiamento di Danny lungo tutta la stagione. La Rand è gestita da Ward (Tom Pelphrey) e Joy Meachum (Jessica Stroup), figli di Harold Meachum (David Wenham), ex socio del padre di Danny che è stato resuscitato dalla Mano dopo un cancro mortale; ebbene, la spensieratezza con cui Danny avvicina Ward e Joy è frutto dell’ingenuità di un ragazzo che vede il buono in chiunque lo circondi, e che si lascia ingannare facilmente dalle menzogne di Harold, vero responsabile della morte dei suoi genitori. Dal barefooting alle notti all’addiaccio, passando per l’iniziale rifiuto dei beni terreni, Danny è un alieno proiettato nel grigiore metallico della downtown newyorkese, e le sue reazioni sono quelle di un ragazzo che ancora non conosce l’età adulta: s’infuria, perde la cognizione della realtà, agisce d’impulso e sbaglia, trovando la retta via solo alla fine. È un individuo acerbo di cui seguiamo la crescita accidentata, e in tal senso la prima stagione di Iron Fist è davvero una storia di origini. Danny non è ancora un supereroe: prima di salvare gli altri, deve imparare a salvare se stesso.

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La giovane sensei Colleen Wing (Jessica Henwick), l’onnipresente ex infermiera Claire Temple (Rosario Dawson) e l’avvocato Jeryn Hogarth (Carrie-Anne Moss) sono le tre figure femminili che s’incaricano di guidarlo in questo percorso tortuoso, donandogli rispettivamente affetto, saggezza e supporto materiale. Il sistema dei personaggi ha il merito di essere liquido, e infatti accade spesso che un alleato si trasformi in avversario, o viceversa: Ward e Joy si scambiano di ruolo, poiché alla fine è lei a diventare ostile, peraltro senza che questa evoluzione sia pienamente giustificata dai fatti, mentre Ward supera i suoi tormenti e diventa un partner affidabile per la nuova vita di Danny; qualcosa di simile accade anche ai due principali antagonisti della serie, Bakuto (Ramon Rodriguez), leader di una fazione apparentemente più ragionevole della Mano, e Harold Meachum, instabile pater familias che vuole sfruttare Danny contro il clan ninja, salvo poi incastrarlo per lo spaccio di un’eroina sintetica che la Mano voleva immettere sul mercato. L’assenza di un supervillain non giova allo show, inutile negarlo: l’intensità del climax ne risente, anche perché il confronto finale tra Danny e Harold è fin troppo illogico anche per un prodotto di questo genere. Con la solita operazione di teasing, il vero supercattivo è ritratto nella sua genesi, poiché la presenza di Davos alias Serpente d’Acciaio serve solo a stabilire le premesse per l’eventuale seconda stagione. Come Mordo in Doctor Strange, anche Davos comincia nel ruolo di amico/rivale che si sente tradito dagli ideali dell’eroe, e giura di diventare la sua nemesi per vendicarsi dei torti subiti: peccato solo che la sua introduzione sia un po’ tardiva, non adeguatamente supportata da flashback “preparatori”. In generale, la serie è un po’ troppo timida nel mostrare il passato di Danny a K’un L’un, e tende spesso a porsi fin troppi limiti: l’ossessione per il “realismo” scoraggia lo showrunner Scott Buck dal mostrare (fra le altre cose) la battaglia con il drago, anestetizzando così quel senso di meraviglia che dovrebbe essere associato a un eroe mistico come Pugno d’Acciaio. In generale, l’apparato visivo è abbastanza sterile, e persino le scene d’azione non offrono uno spettacolo particolarmente efficace, se si esclude qualche sporadica circostanza come lo scontro in corridoio con gli uomini armati di accetta e le svariate battaglie del penultimo episodio, forse il più teso e divertente di tutta la stagione.

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Per il resto, non convince la dilatazione eccessiva di alcune scene (soprattutto quelle con i Meachum) che mette in secondo piano la centralità del protagonista, né le forzature narrative che talvolta spingono i personaggi ad agire in maniera insensata. La svolta che il sesto episodio sembra imprimere alla serie non si concretizza in quelli successivi, dove la verbosità dei dialoghi aumenta e il passo della narrazione, da ponderato e zen, si fa più incerto e frammentario, oscillando tra alcune caratterizzazioni valide (quelle di Ward e Joy) e altre meno convincenti (Bakuto e Harold, troppo piatti o monodimensionali per il ruolo di antagonisti, soprattutto se paragonati agli ottimi Wilson Fisk e Kilgrave di Daredevil e Jessica Jones). In compenso, l’evoluzione psico-emotiva di Danny e l’interpretazione di Finn Jones sono ben calibrate, mentre la sua storia d’amore con Colleen sa essere garbata e sottile, mai stucchevole.

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Fanno sorridere gli easter egg dedicati agli altri Difensori, anche se la preoccupazione di non farli incontrare prima del cross-over genera circostanze un po’ surreali: i personaggi – soprattutto Claire – evitano accuratamente di entrare nello specifico, e seminano riferimenti più o meno velati per ricordarci che l’universo narrativo è lo stesso, ma lo fanno sempre con una punta di ritrosia. Detto questo, l’epilogo sembra gettare le basi per la trama di The Defenders, rinforzando in Danny la convinzione che Pugno d’Acciaio serva al mondo esterno quanto a K’un L’un: sarà interessante verificare le dinamiche caratteriali che si instaureranno tra questo eroe dal cuore puro e gli altri vigilanti newyorkesi, più ruvidi e anagraficamente più maturi, ma forse bisognosi di un punto di vista più fresco – come quello di Danny – sulle minacce che gravano all’orizzonte.

Voto: ★★★

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