“Siamo tutti libri di sangue; in qualunque punto ci aprano, siamo rossi”.
La frase è di Clive Barker ed è in grado di evocare un discreto numero di immagini macabre. Questa citazione ha anche il pregio di descrivere alla perfezione le sensazioni che si provano durante la visione di Autopsy (titolo originale The Autopsy of Jane Doe), ultima fatica del regista di Trollhunter André Øvredal. Un horror claustrofobico che strizza l’occhio alle classiche storie gialle/poliziesche alla CSI, quelle, per intenderci, con una scena del crimine e un gruppo di persone impegnate a trovare e raccogliere anche il più piccolo indizio per risolvere l’enigma.
Il corpo senza vita di una donna arriva in un obitorio. Chi è? Perché è morta? Per trovare una risposta è necessario, appunto, esaminare la scena del crimine, che però corrisponde a quel cadavere. Durante l’autopsia Jane Doe (nome generico usato oltreoceano per identificare persone la cui identità è sconosciuta) si rivela, strato dopo strato, pagina di sangue dopo pagina di sangue, fino all’inquietante verità. Ad eseguire l’autopsia troviamo Tony Tilden (Brian Cox) e il figlio Austin (Emile Hirsch), che gestiscono un obitorio in un paesino della Virginia. Due personalità unite ma al tempo stesso opposte, professionale e solo all’apparenza freddo il padre, che opera con la nonchalance tipica di chi ha dissezionato corpi per anni; decisamente più emotivo il figlio, che subito comincia ad intuire che c’è qualcosa che non va nel corpo di quella donna e che forse sarebbe meglio non proseguire con l’autopsia.
Ambientazione quasi unica ma considerando che si tratta di un obitorio la suggestione di certo non manca. Un cast altrettanto minimale, che comprende anche la giovane Olwen Catherine Kelly nel ruolo, immobile, di Jane Doe. Se da un lato queste componenti sono ridotte al minimo sindacale, è anche vero che il risultato per quanto riguarda i brividi è inversamente proporzionale. Autopsy gioca bene ogni sua carta, non indugiando facilmente sulla componente splatter e regalandoci un vero e proprio viaggio all’insegna del terrore. Il regista André Øvredal non ci risparmia quasi niente per quanto riguarda i dettagli truculenti, è vero, ma riesce sempre a mantenere un certo distacco, lo stesso dei protagonisti, abituati da anni ad effettuare quel lavoro. Niente exploitation fine a se stessa, insomma, ma un più efficace occhio clinico che non distrae lo spettatore dall’escalation continua della tensione.
E se da un lato è facile intuire la soluzione dell’enigma che si trovano di fronte i due protagonisti, è altrettanto vero che questo non influisce in alcun modo sull’atmosfera del film, in grado di dare il meglio nei momenti più silenziosi, giocando a astutamente sul fatto che lo spettatore sa bene che qualcosa di orribile sta per succedere. Funzionale è anche la profonda malinconia che aleggia costantemente sulla storia, frutto di dinamiche familiari e di un’efficace colonna sonora. Autopsy è, in poche parole, un horror decisamente riuscito. Non perfetto (quale opera lo è in fin dei conti?) ma avvincente ed è questa la cosa più importante, visto il genere e la sfida che la storia impone.
Autopsy farà il suo ingresso nelle sale italiane l’8 marzo, distribuito da M2 Pictures.
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