Nelle logiche spietate del cinema americano, a volte serve un film da Oscar per farti riapparire sui radar. Certo, il talento di Kenneth Lonergan è sempre stato fuori discussione, ma il suo nome non ha mai avuto una grande risonanza presso le platee internazionali, se si esclude quella ristretta cerchia di spettatori che ha visto sia Conta su di me (2000) sia Margaret (2011), gli unici suoi film da regista prima di Manchester by the Sea. Ora, però, l’ottimo dramma con Casey Affleck riporta in primo piano il cinema di Lonergan, insieme alla sua spiccata capacità di “forgiare il cuore dei personaggi e il cuore delle situazioni”, per citare le parole di Martin Scorsese, che gli affidò la sceneggiatura di Gangs of New York.
Questa attitudine per l’analisi e la costruzione dei personaggi deriva dalla sua infanzia, in particolare dall’ambiente in cui è cresciuto: figlio di due psicanalisti, Kenneth Lonergan ha confidato scherzosamente al New Yorker di essere stato “allevato dalla Società Psicanalitica di New York”, poiché i suoi genitori discutevano spesso dei pazienti su cui lavoravano – sempre in forma anonima, per fortuna – tra le mura di casa, e lui ascoltava tutto. L’idea per Terapia e pallottole (1999), non a caso, gli fu suggerita proprio da uno dei racconti del suo patrigno: la commedia di Harold Ramis fu il suo primo successo come sceneggiatore, ma per Lonergan si trattava più che altro di un’attività meramente alimentare. Fin dal liceo, infatti, il suo interesse primario è sempre stato il teatro, a partire da quel testo drammaturgico intitolato The Rennings Children che il giovane Kenneth scrisse nel 1982, appena ventenne, e fu selezionato al Young Playwright’s Festival di Stephen Sondheim. Il suo primo exploit teatrale fu però This Is Our Youth (1996), cui seguirono The Waverly Gallery (2000) e Lobby Hero (2001), nominati a premi di altissimo livello come il Drama Desk Award e il Pulitzer.
Ma si sa, la vocazione teatrale non è particolarmente lucrosa. Per questa ragione, Lonergan continuò a supportarla con il suo lavoro di sceneggiatore cinematografico, accettando di scrivere lo sventurato Le avventure di Rocky e Bullwinkle (2000) e il più prestigioso Gangs of New York (2002) per Scorsese, ricevendo una candidatura agli Academy Awards per la Miglior Sceneggiatura Originale insieme ai colleghi Jay Cocks e Steven Zaillian. Se però facciamo un passo indietro e torniamo al 2000, possiamo trovare il suo debutto da regista cinematografico, il sopracitato Conta su di me. Nominato anch’esso agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, Conta su di me racconta la storia di un fratello e una sorella (Mark Ruffalo e Laura Linney) che hanno perso i genitori in giovane età, e ora devono affrontare una sequela di complicazioni sociali, relazionali ed economiche. Si tratta di un film indipendente, situazione ideale per Lonergan, finalmente libero di sfogare anche sul grande schermo la sua visione sfaccettata dei personaggi: scavando in ognuno di essi, il cineasta viviseziona le diverse modalità con cui metabolizzano i traumi, poiché esse variano a seconda del carattere, del temperamento e della psicologia.
Purtroppo, però, negli anni successivi Lonergan fu obbligato a lottare duramente per affermare la sua voce, come spesso accade agli “autori” che si confrontano coi grandi studios, succursali indie comprese. Margaret fu girato nel 2005, ma uscì soltanto nel 2011 dopo sei anni di contrasti in post-produzione, sfociati in una battaglia legale che fu vinta dal regista nel 2013. Il film racconta la storia di Lisa (Anna Paquin), una studentessa diciassettenne di Manhattan che, distraendo l’autista di un autobus, provoca indirettamente la morte di una donna: la vita di Lisa ne viene stravolta, con pesanti ramificazioni su tutto ciò che la circonda, tra la scuola, la famiglia e soprattutto il rapporto con la madre (interpretata da J. Smith Cameron, moglie di Lonergan, che fa un cameo nel ruolo del padre). Ma, al di là della vicenda privata, c’è il ritratto di una metropoli che si sta ancora riprendendo dallo shock dell’11 settembre, e che il regista cerca di rielaborare attraverso lunghe inquadrature del cielo e delle strade, mentre le voci di anonimi newyorkesi si accumulano fra loro: si tratta di dialoghi reali che Lonergan ha sentito per caso in città, e che ha annotato sul suo taccuino.
Anche in virtù di questo approccio, il cineasta e i produttori non riuscirono a trovare un accordo sul montaggio definitivo: la versione estesa dura 186 minuti, ma Fox Searchlight – timorosa di rovinare la sua reputazione con i registi – ha proibito all’autore di chiamarla director’s cut, mentre la versione cinematografica è apparsa in pochissime sale con una durata nettamente inferiore, 150 minuti. Questo montaggio è stato ripudiato dallo stesso Lonergan, ma in compenso Margaret ha acquisito la fama di capolavoro presso molti cinefili, nonostante la comunità degli sceneggiatori lo ricordi soprattutto come un caso emblematico nel complesso gioco di equilibri tra la visione intima di un regista e quella pragmatica della produzione.
Comunque sia, oltre a insegnargli una severa lezione sui meccanismi dell’industria cinematografica, Margaret costrinse Lonergan a rimettersi in discussione dal punto di vista professionale: di fronte alla prospettiva di una rovina artistica ed economica, chiunque – persino un creativo pieno di autostima come lui – tenderebbe a dubitare di sé. Manchester by the Sea, d’altro canto, è servito a rinvigorire tanto la sua carriera quanto il suo morale, e il merito è anche di Matt Damon, con cui aveva già lavorato in Margaret. È stato proprio Damon a commissionargli la scrittura di un copione ambientato nella sua città natale, Manchester By the Sea nel Massachusetts, con l’intenzione di dirigerlo in prima persona; ma, dopo aver letto la sceneggiatura, l’attore ha spinto Lonergan ad assumerne anche la regia. Intuizione corretta: Manchester by the Sea appartiene intimamente al suo sceneggiatore, soprattutto per come affronta il tema del dolore e le sue conseguenze a lungo termine. Lonergan contesta l’idea – non sbagliata, ma retorica e fin troppo abusata da Hollywood – secondo cui persino la sofferenza più lancinante possa stimolare una crescita del sé, accompagnando i personaggi in un classico percorso formativo. Questo non accade nel suo film, la cui trama potrebbe tranquillamente imboccare un sentiero di rivalsa e autocoscienza (come in molte produzioni agrodolci dei grandi studios), ma non è ciò che gli interessa; Lonergan, infatti, vuole raccontare la storia di una persona che non impara nulla dalle tragedie del passato e del presente, poiché reagisce per sottrazione, ne risulta come svuotato. Il personaggio di Casey Affleck, tormentato da gravi perdite affettive, deve fare i conti con la morte del fratello Joe (Kyle Chandler) e con il futuro di suo nipote Patrick (Lucas Hedges), trascinandosi per inerzia davanti alle responsabilità logistiche e sentimentali che ha appena ereditato. Il dramma non si trasforma mai in melodramma, non c’è spazio per gli eccessi emotivi; ancora una volta, ogni personaggio reagisce in maniera diversa, ma i dialoghi sanciscono l’impossibilità di giungere a una catarsi definitiva. Esemplare la scena tra Lee (Affleck) e l’ex moglie Randi (Michelle Williams), dove entrambi sono incapaci di esprimersi compiutamente, le parole muoiono in gola e tra loro non c’è mai vera comunicazione. «There’s nothing there» dice Lee, dichiarando la sua resa. Quel dialogo sintetizza efficacemente il cinema di Kenneth Lonergan, dove i personaggi restano paralizzati nei loro traumi, e la sostanza emotiva non è mai retorica o didascalica. Se volete scoprire il suo talento, Manchester by the Sea è un buon modo per cominciare.
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