Abbiamo lasciato Sherlock, alla fine della terza stagione, di ritorno a Londra -dopo l’esilio più breve della storia- per prepararsi a fronteggiare il temuto ritorno (o, quantomeno, il colpo gobbo) di Moriarty, l’arcinemico del nostro amato sociopatico ad alta funzionalità. La vita, per il resto, scorre piuttosto tranquilla e ordinaria per chi gravita attorno a Sherlock: John e Mary, addirittura, sembrano essersi lasciati alle spalle i traumi del loro passato, presi come sono dal prendersi cura della loro piccola appena nata. I casi da risolvere, tuttavia, non mancano mai: uno, in particolare, attira l’attenzione delle autorità… e di Sherlock. Alcuni inconsueti omicidi sono, in qualche modo, legati a una serie di busti della storica First Lady Margaret Thatcher. Cosa si sta muovendo nell’ombra?
Ogni volta che qualcosa di nuovo targato “Sherlock” viene dato in pasto al pubblico è, ovviamente, un evento: la serie BBC è un titolo decisamente atipico, dalle tempistiche dilatate ma anche di breve fruizione, data la quantità esigua di episodi prodotti. L’hype, come si suol dire, è una brutta bestia e quindi le aspettative sono sempre altissime, adeguatesi presto agli standard a cui Mark Gatiss e Steven Moffat ci hanno abituato fin dagli albori della saga, sei anni fa.
Per questa quarta stagione (che potrebbe anche essere l’ultima) l’impressione è quella di trovarsi davanti, effettivamente, alla resa dei conti, espandendo l’originale meccanica narrativa a incastro sperimentata, con sempre maggior successo, nel corso degli anni fino ad arrivare a quel piccolo capolavoro di metanarrativa che è stato L’abominevole sposa. Ancora una volta, con The Six Thatchers, Moffat e Gatiss si rivelano abili prestigiatori, dispensando ironia e fan service, indizi e dramma, oltre che una notevole profondità di dialoghi, tematiche e introspezione, con personaggi tutt’altro che statici, fino ad arrivare alle risoluzioni finali, inaspettate eppure sotto gli occhi di tutti fin da subito, come si conviene ai migliori gialli. Il tutto immerso in una narrazione piena di ritmo e impreziosita dal cast, che dona nuove sfumature a personaggi già così tanto noti eppure sempre freschi e irresistibili.
Difetti? Principalmente, si può rimproverare a questo primo episodio il voler spingere parecchio sull’acceleratore e mostrare, fin da subito e quasi a tradimento, alcune delle famose e più volte promesse “conseguenze” delle azioni e dell’atteggiamento che hanno caratterizzato e caratterizzano Sherlock e Watson. Pur rimanendo perfettamente nel solco della tradizione conandoyliana, difatti, il serial continua a vivere di vita propria, a espandersi in modo inaspettato e spiazzante, e a non poter essere fruito senza volontà di stare al gioco, usando grande attenzione al presente quanto alla continuity. Temiamo che, da qui alla conclusione della stagione, Sherlock sarà un personaggio (e una serie) da amare o da odiare senza mezze misure, ancor più della già molto discussa terza tranche (e mezzo) di episodi. Lo scopriremo presto. Nel frattempo, ci riascoltiamo Samarcanda di Roberto Vecchioni, cercando di scoprire se si può sfuggire al proprio destino.
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