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Una serie di sfortunati eventi – La recensione della prima stagione

Pubblicato il 19 gennaio 2017 di Lorenzo Pedrazzi

Tra le molte trasposizioni che si sono illuse di diventare un franchise cinematografico, la saga letteraria di Lemony Snicket meritava certamente maggior fortuna, ma il noto film di Brad Silberling non ha avuto abbastanza successo da giustificare dei sequel. Com’è già accaduto in passato, ci ha pensato Netflix a resuscitare un progetto che si credeva ormai perduto: la piattaforma on-line ha dato fiducia al regista Barry Sonnenfeld e allo sceneggiatore Daniel Handler (vero nome di Lemony Snicket) per produrre Una serie di sfortunati eventi in formato seriale, giudicato più adatto per tradurre i romanzi sullo schermo; e il risultato, stando a questi primi otto episodi, dà ragione al servizio streaming, che ha trovato in Neil Patrick Harris un ottimo sostituto di Jim Carrey.

ATTENZIONE: contiene SPOILER!

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Look away
Gli otto episodi coprono i primi quattro libri della saga, ovvero Un infausto inizio, La stanza delle serpi, La funesta finestra e La sinistra segheria, dedicando due puntate all’adattamento di ogni libro.

Un infausto inizio: i fratelli Violet, Klaus e Sunny Baudelaire perdono i genitori nell’incendio della loro casa, e vengono affidati dal signor Poe al sinistro Conte Olaf (Neil Patrick Harris) perché li accudisca finché Violet non diverrà maggiorenne; a quel punto, la ragazza potrà disporre della ricca eredità di famiglia. Olaf, attore borioso che ama i travestimenti, in realtà è interessato solo al patrimonio dei Baudelaire, ed è riuscito ad adottare i ragazzini con l’inganno: il suo scopo è sposare Violet per mettere le mani sul denaro, ma i talenti combinati dei tre fratellini (Violet è un’abile inventrice, Klaus ricorda tutto ciò che legge, la piccola Sunny ha denti d’acciaio) riescono a sventare il piano di Olaf.

La stanza delle serpi: reduci dalla disavventura con Olaf, i Baudelaire vengono affidati all’adorabile Mongomery Montgomery (alias zio Monty), grandissimo esperto di erpetologia. Purtroppo, però, Olaf si finge il nuovo assistente di Monty, l’italiano Stephano, e riesce a ucciderlo con il veleno di un serpente pericolosissimo. Sulla scena del crimine si palesa una squadra di falsi investigatori (la compagnia teatrale di Olaf, sua complice), ma i ragazzi riescono a smascherare il Conte davanti al signor Poe. I malfattori riescono a scappare, mentre i rettili di Monty vengono trasferiti alla Società di Erpetologia.

La funesta finestra: il signor Poe affida i Baudelaire alla zia Josephine, donna piena di fobie che vive sul Lago Lacrimoso, dove coltiva la sua ossessione per la grammatica. La sua casa si trova in cima a un rupe molto alta. Anche stavolta, però, Olaf trova il modo d’intromettersi: si maschera da lupo di mare, il Capitano Sham, e costringe Josephine a scrivere una lettera d’addio dove chiede al Capitano di crescere i ragazzi al posto suo. La lettera contiene però un messaggio in codice per i Baudelaire, che lo decifrano e raggiungono la zia nella grotta dove si era rifugiata. Purtroppo, mentre tornano in città, vengono intercettati da Olaf, che getta la zia in pasto alle sanguisughe. Violet, Klaus e Sunny riescono comunque sfuggirgli, e salgono su un furgone che si dirige verso la Segheria Ciocco Felice, misteriosamente legata al passato dei loro genitori.

La sinistra segheria: introdottisi abusivamente nella Segheria Ciocco Felice, i Baudelaire vengono costretti dal proprietario, Sir, a lavorare nella fabbrica. Gli operai sono stati ipnotizzati dall’optometrista Georgina Orwell, vecchia fiamma di Olaf, perché lavorino in condizioni pietose e senza essere pagati. Il Conte, travestito da segretaria di Georgina, si unisce a lei per ordire un altro piano malvagio: ipnotizzano Klaus per fare in modo che causi gravi danni alla segheria, inducendo Sir a mandare via i Baudelaire. Di nuovo, i ragazzi riescono a sventare le macchinazioni del loro nemico, e Georgina muore cadendo in una fornace. Il signor Poe li affida quindi a un’oscura accademia, dove i Baudelaire faranno la conoscenza di altri bambini che hanno subìto la loro stessa sventura…

La narrazione è intervallata dai commenti di Lemony Snicket (Patrick Warburton), che appare sulla scena per piangere la triste sorte dei personaggi e arricchire il racconto con informazioni supplementari. C’è spazio anche per la “mitologia” della saga: il mistero dei genitori alimenta la trama orizzontale dello show, che si ramifica in un florilegio di indizi, enigmi da risolvere e verità da scoprire, con due organizzazioni in lotta per il futuro dei Baudelaire. A tutto questo si aggiungono le vicende dei coniugi Quagmire (o Pantano nell’edizione italiana), che per gran parte della stagione crediamo essere la mamma e il papà dei Baudelaire: tornati dai figli dopo essere stati rinchiusi in una prigione peruviana, muoiono apparentemente nell’incendio della loro casa.

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Brivido, terrore e raccapriccio
In quanto saga reiterativa, Una serie di sfortunati eventi non può che giovarsi della trasposizione seriale: la ripetizione dei tòpoi narrativi si presta particolarmente bene alla struttura episodica dello show, che dedica ben due puntate a ogni libro – praticamente la durata di un lungometraggio – per adattarlo nei dettagli fondamentali, pur cambiandone alcuni. L’alternanza dei tutori, dei travestimenti di Olaf e dei suoi piani malvagi trova quindi corrispondenza nella forma del racconto, con un effetto che si potrebbe definire “fidelizzante”: ci si affeziona al prodotto perché sappiamo già (a grandi linee) cosa aspettarci, come nella tradizione delle serie tv. Naturalmente ci sono anche delle controindicazioni, seppur marginali. Le sceneggiature di Daniel Handler sono più “letterarie” che “cine-televisive”, e in alcune scene tendono a essere troppo verbose, sia nel confronto tra i personaggi (dove talvolta si ravvisa qualche lungaggine) sia negli interventi di Lemony Snicket, autore onnisciente che spezza l’azione e anche la tensione. In quest’ultimo caso, però, bisogna riconoscere la volontarietà della scelta: Una serie di sfortunati eventi adotta infatti alcune soluzioni piuttosto audaci, soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento per ragazzi, ed è qui che risiede gran parte del suo valore.

In sostanza, lo show è una “meta-narrazione” che svela ripetutamente l’artificiosità della messinscena, senza preoccuparsi di trasmettere quel senso di naturalezza – dovuto ai trucchi del montaggio e del climax – che dovrebbe farci dimenticare la sua natura fittizia. Al contrario, Barry Sonnenfeld e Daniel Handler lo sottolineano di continuo: i panorami digitali sono deliziosamente posticci, le splendide scenografie non si sforzano mai di apparire verosimili, mentre gli sfondi hanno spesso la bidimensionalità delle illustrazioni per l’infanzia. Inoltre, non appena il racconto ci ghermisce con qualche colpo di scena o snodo drammatico, ecco Lemony Snicket fare capolino sul più bello, per ricordarci che stiamo assistendo alla narrazione di una narrazione. L’autore ci vende le disavventure dei Baudelaire come se fossero una storia vera, ma questo alimenta il nostro senso di straniamento, insieme all’impressione di osservare lo spettacolo non dalla platea, ma da dietro le quinte. L’ironia macabra gioca proprio su questa sensazione: ci estrania, invece di coinvolgerci. E il suddetto straniamento ha qualcosa di salvifico, poiché le disavventure dei ragazzini e dei loro tutori sono spesso tragiche, seppur surreali.

D’altra parte, in una serie basata sul continuo mascheramento della realtà, questo approccio permette di far corrispondere forma e contenuto: i travestimenti del Conte sono soltanto il livello più basso della rappresentazione, dove una messinscena ne include sempre un’altra, come le scatole cinesi. I Baudelaire sono però gli unici in grado di riconoscerne la falsità. Quello di Una serie di sfortunati eventi è un mondo dove l’ottusità degli adulti costringe i bambini a rendersi autonomi, mentre assistono alla sconcertante idiozia dei loro tutori. Spesso – soprattutto attraverso voce del signor Poe – gli adulti si preoccupano di spiegare pedantemente ai Baudelaire il significato di una parola o di un’espressione, illudendosi di saperne più di loro, ma si sbagliano: i tre ragazzini sono sempre un passo avanti, nonostante siano confinati in un ruolo sociale che limita la loro credibilità presso i “grandi”. Nessuno, insomma, li prende sul serio, ed è per questo che devono cavarsela da soli.

Ne deriva uno show che non perde mai le sue tinte cupe, nemmeno quando le situazioni si fanno buffe o paradossali. C’è una progressione costante verso la catastrofe, un passo inesorabile che conduce all’ennesimo misfatto: per quanto i Baudelaire riescano a smantellare i piani di Olaf, quest’ultimo tornerà con un travestimento ancor più bizzarro. Il cinismo e lo humor nero sono connaturati alla serie, e Neil Patrick Harris è bravo a entrare in questo spirito senza scivolare nel macchiettismo, ma conservando sempre il massimo controllo sui suoi personaggi. Istrionico e trasformista, ma mai sopra le righe, l’attore lascia sempre trasparire una vena di sadismo che mette una certa inquietudine. Siamo lontani dagli spettacoli edulcorati che caratterizzano gli attuali prodotti per bambini, dove si tende spesso a evitare ogni turbamento: qui l’atmosfera è sempre greve, i personaggi subiscono destini orribili, e ogni sorriso ha un retrogusto amaro. Costumi e scenografie creano un piacevole contrasto in questo clima tetro, dove Sonnenfeld allestisce un mondo senza tempo che si colloca a metà strada fra il gotico vittoriano, gli anni Cinquanta e lo steampunk.

Con simili pregi, è davvero arduo seguire il consiglio della sigla e volgere lo sguardo altrove…

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