The OA – La nuova serie Netflix è un rompicapo emotivo tra misticismo e fantascienza

The OA – La nuova serie Netflix è un rompicapo emotivo tra misticismo e fantascienza

Di Lorenzo Pedrazzi

Mentre Hollywood continua a prediligere la spettacolarità di una fantascienza avventurosa, rombante ed effettistica, il cinema indie americano rifugge dall’infantilizzazione del pubblico, e tende a vedere la science fiction come un’opportunità di indagine sulla natura intima delle cose, sia umane sia materiali. Film come Primer e Upstream Color di Shane Carruth, Coherence di James Ward Byrkit o Another Earth di Mike Cahill sono particolarmente significativi, poiché esemplificano una celebre definizione della fantascienza che fu coniata dallo scrittore Damon Knight a partire dal collega Theodore Sturgeon: secondo questa definizione, la sci-fi è “una vicenda di esseri umani, con problemi umani, che non potrebbe verificarsi se non nelle circostanze espresse nei precisi assunti speculativi della vicenda stessa”. In pratica, è l’elemento fantascientifico a scatenare il dramma, e in esso riecheggiano problematiche sociali, storiche e psicologiche a noi contemporanee.

Il regista Zal Batmanglij e soprattutto l’attrice/sceneggiatrice Brit Marling svolgono un ruolo di primo piano in questa tendenza creativa: insieme, i due cineasti hanno scritto Sound of My Voice (piccolo capolavoro che gioca sull’immaginario fantascientifico), mentre Brit Marling ha lavorato con Mike Cahill sia in Another Earth – di cui è co-sceneggiatrice – sia in I, Origins, altro prodotto di questo filone. Ebbene, Netflix ha dato loro fiducia per continuare il discorso sul piccolo schermo, e il risultato è The OA, enigmatico show in otto episodi che reinterpreta liberamente il medium seriale.

ATTENZIONE: contiene SPOILER sulla serie!

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Altri mondi
La sovrapposizione dei piani temporali non facilita la sintesi della trama, ma si potrebbe riassumere a grandi linee così: Prairie Johnson (Brit Marling) è una ragazza cieca che scomparve misteriosamente sette anni fa, e che ritorna dal nulla con il dono della vista, oltre a una serie di strane cicatrici sulla schiena. Vuole farsi chiamare “OA” (“PA” nella versione italiana), e rifiuta di raccontare la sua storia sia all’FBI sia ai suoi genitori adottivi. A casa, OA evita le attenzioni della stampa e raccoglie attorno a sé un gruppo di cinque persone, tutte gravate da vari problemi personali:

Steve, piccolo spacciatore che se la prende con un rivale in amore, suo compagno di scuola, e lo ferisce gravemente alla laringe con un pugno;

Buck, un ragazzino transgender che fatica a farsi accettare dai genitori;

Jesse, amico di Steve, che vive in un mondo tutto suo dopo aver perso la madre;

Alfonso, studente dell’ultimo anno che ha vinto una borsa di studio, e fa due lavori per provvedere alla madre e ai due fratellini;

Betty, insegnante di Steve al liceo, che si sente in colpa per aver denunciato la tossicodipendenza del suo defunto fratello gemello.

Ogni notte, questo gruppo si riunisce con OA in una casa abbandonata, dove lei racconta la sua storia per filo e per segno. Nata in Russia con il nome di Nina, figlia di un ricco imprenditore, vide la morte in faccia quand’era ancora piccola, vittima di un attentato della mafia: fu in quel momento che, in una sorta di crocevia tra le galassie dell’universo, entrò in contatto con Khatun (Hiam Abbas), entità spirituale “materna” che accettò di riportarla in vita, ma le tolse la vista per salvaguardarla dagli orrori che successivamente avrebbe sperimentato. Suo padre la mandò negli Stati Uniti per stare da sua sorella, ma l’uomo morì per mano della mafia, e Nina si ritrovò prigioniera in casa della zia, che vendeva neonati alle coppie senza figli. Una di esse, composta da Abel e Nancy Johnson, scelse di salvare proprio Nina, quindi la portò a casa con sé e la chiamò Prairie. Una volta cresciuta, tormentata da strani sogni, Prairie decise di intraprendere un viaggio per ritrovare suo padre, convinta che fosse ancora vivo. Si trasferì a New York, dove cominciò a suonare il violino in metropolitana, e il suo talento attirò l’attenzione del Dr. Hunter Hap (Jason Isaacs), il quale stava compiendo esperimenti con le persone che avevano vissuto esperienze vicine alla morte. Ingannata dalla gentilezza dell’uomo e resa più vulnerabile dalla cecità, Prairie salì sull’aereo da turismo di Hap e lo seguì fino a casa sua, dove fu rinchiusa in una caverna sotterranea attrezzata con celle trasparenti, insieme ad altre tre persone (cui in seguito se ne aggiunse una quarta): Scott, Rachel, Renata e Homer, di cui Prairie s’innamorò. Lei e gli altri prigionieri furono costretti a subire gli esperimenti di Hap, ossessionato dall’idea di scoprire l’esistenza dell’aldilà, ma ogni viaggio post-mortem consentì al gruppo di acquisire una serie di cinque movimenti che, se eseguiti tutti insieme, avrebbero permesso loro di aprire un varco su un’altra dimensione. Durante una di queste esperienze metafisiche, Kathun restituì la vista a Prairie per aiutarla nei suoi piani, e la ragazza si convinse di essere una sorta di angelo.

Ora, Prairie ha bisogno dell’aiuto dei suoi nuovi amici per salvare le altre quattro “cavie”, rimaste nel laboratorio di Hap dopo che lei fu liberata dal dottore, troppo coinvolto emotivamente per ucciderla o farla restare. Ma è davvero questa la realtà dei fatti?

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Away
Per decifrare The OA – fermo restando che un’interpretazione univoca è impossibile – occorre tornare alle radici dei suoi autori, la cui coerenza tematica è innegabile. Nella serie Netflix risuonano gli echi delle loro opere precedenti, anche in termini di pastiche tecnico-spirituale: l’ossessione di indagare il sovrasensibile attraverso la scienza è già presente in I, Origins, anche se qui la focalizzazione si sposta dal soggetto indagante agli oggetti indagati, che contrappongono una sorta di fede collettiva (non necessariamente religiosa) alle competenze mediche del singolo individuo. Il misticismo si ramifica nella teoria dei mondi paralleli, sfiorata da Another Earth, ma le basi fondamentali sono rintracciabili soprattutto in Sound of My Voice, non a caso il primo frutto della collaborazione tra Brit Marling e Zal Batmanglij. Perché The OA, se ridotto ai suoi elementi essenziali, è una riflessione sul potere della parola, dove un capo carismatico usa la sua voce suadente per comunicare (o costruire?) una realtà alternativa. In fondo, Prairie non è altro che una nuova Maggie, la protagonista di Sound of My Voice, leader di una setta che racconta una fiaba fantascientifica ai suoi seguaci e, attraverso promesse salvifiche, seduce il loro disperato bisogno di certezze. La complicata stretta di mano che si scambiano gli adepti di Maggie non è così diversa dagli elaborati movimenti che i prigionieri apprendono nell’aldilà, così insensati e volutamente ridicoli, teatrali e accuratamente coreografati: il legame tra i protagonisti genera un mondo a parte, con i suoi codici e i suoi linguaggi, che spesso corrisponde alla fantasia egoriferita degli autori. Le reazioni di alcuni personaggi, talvolta esagerate o fuori luogo, rispondono alla medesima esigenza: Marling e Batmanglij non spiegano niente al pubblico, non offrono soluzioni limpide né in chiave psicologica né in chiave narrativa, ma si preoccupano soltanto di riflettere la loro interiorità. Stesso discorso per il nome OA, contrazione ingiustificata della parola away, anch’essa compresa in un codice privato da cui gli spettatori sono esclusi, ma che in realtà sta per Original Angel, l’angelo originale (o Primo Angelo nella versione italiana).

Va da sé che questo può indurre confusione, e infatti The OA è ricco di passaggi illogici o nebulosi che, però, potrebbero essere il risultato delle menzogne di Prairie. È impossibile stabilire il confine tra verità e finzione, poiché noi spettatori viviamo il racconto solo attraverso le parole della ragazza, narratrice inaffidabile che ci vende la sua realtà. Qualcosa di straordinario è inevitabilmente successo (altrimenti come avrebbe potuto riacquistare la vista?), ma non è detto che sia proprio ciò di cui abbiamo notizia: anche le stucchevoli divagazioni sugli “angeli” – dove francamente si giunge al limite della sopportazione – potrebbero essere il frutto di una costruzione artificiosa, legata a un immaginario comune che molti considerano pacifico e rassicurante. L’epilogo riporta il discorso a un livello più terreno, come se Marling e Batmanglij volessero radicalizzare il contrasto tra mondo sensibile e sovrasensibile: nell’intersezione tra le galassie dove Prairie incontra Kathun, o nelle fantasie allucinatorie post-mortem degli altri prigionieri, la vita genera altra vita, poiché l’ingestione di una creatura vivente permette di “sbloccare” un nuovo set di movimenti; nella realtà, invece, accade che la violenza generi altra violenza, in un circolo vizioso che alimenta la banalità del male. Non vediamo mai chiaramente il volto del ragazzino che si presenta a scuola imbracciando un fucile, ma possiamo intuire che si tratti del corista a cui Steve ha lacerato la laringe, distruggendo i suoi sogni. L’apertura del portale dimensionale, dopo che il gruppo si è esibito nei movimenti per affrontare l’aggressore, potrebbe essere rappresentato dal passaggio di Prairie nell’aldilà, ferita mortalmente e quindi pronta a riabbracciare le persone amate, Homer compreso, nella quiete eterna di uno spazio tra gli spazi. Ma questa è soltanto una possibile interpretazione, forse la più lineare. The OA è un prodotto sfuggente che rifiuta di sedimentarsi, scarta in direzioni sempre diverse e smentisce quell’illusione di verità che pensavamo di aver acquisito.

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Chi sono le vere cavie?
L’impressione è che Zal Batmanglij e Brit Marling abbiano costruito lo show con l’approccio anarchico dei guastatori, disfando le regole della serialità in modo più o meno volontario, già a partire dalla scansione degli episodi. Di fatto, si tratta di un lungo film suddiviso in otto capitoli (tant’è che il prologo – prima dei titoli di testa – dura quasi un’ora), ma tra le puntate c’è uno squilibrio clamoroso, quasi tenero nella sua ingenuità “riformatrice”: dopo una première lunga quasi quanto un lungometraggio – nella quale buona parte dei personaggi principali non viene nemmeno introdotta, sradicando una consuetudine della serialità convenzionale – ci sono episodi da 60 minuti che si alternano ad altri da 30 o 40 minuti, con una densità narrativa che varia da capitolo a capitolo, e un finale che forse risulta sin troppo frettoloso (pur avendo, paradossalmente, alcuni tempi morti).

Eppure, tutto questo non ha alcuna importanza di fronte all’audace complessità della serie, concepita come un grande tranello ai danni dello spettatore: se quella che abbiamo seguìto era soltanto la fantasia post-traumatica di una povera vittima, le palesi assurdità della sceneggiatura e il discutibile misticismo New Age non necessitano di una giustificazione logica, ma rientrano nel delirio della narratrice inaffidabile. Ma, allora, come si spiegano gli effetti concreti di queste fantasie, come la guarigione di Prairie o l’apparente funzionamento delle cinque mosse? L’ambiguità è intrinseca al lavoro dei due sceneggiatori, che non offrono mai soluzioni pronte all’uso, ma preferiscono lasciare il discorso in sospeso per consentire al pubblico di trarre le proprie conclusioni. In questo caso c’è sempre la possibilità di una seconda stagione, ma The OA funziona tranquillamente anche come prodotto autoconclusivo, unico nel suo genere – proprio perché rifiuta di collocarsi in un genere specifico – e forse irripetibile: nel grande esperimento di Marling e Batmanglij, le cavie rinchiuse in celle trasparenti siamo proprio noi spettatori.

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