Westworld – La recensione del primo episodio: The Original

Westworld – La recensione del primo episodio: The Original

Di Lorenzo Pedrazzi

Lo spunto iniziale è rintracciabile ne Il mondo dei robot di Michael Crichton, ma Jonathan Nolan e Lisa Joy ne approfondiscono le tematiche per la narrazione seriale: Westworld ha debuttato su HBO con un memorabile primo episodio, The Original, gettando le basi per una serie potenzialmente grandiosa.

Attenzione: il seguente articolo contiene SPOILER

Ci troviamo in un futuro imprecisato. Westworld è un parco a tema che replica una cittadina del vecchio West, abitata da androidi che simulano il più fedelmente possibile i comportamenti umani. Non sanno di essere androidi, e vivono la loro vita nell’assoluta inconsapevolezza della loro vera natura. I visitatori umani possono trascorrere il tempo nella cittadina, sfogando le loro fantasie sui robot: possono dare la caccia ai banditi, sollazzarsi nel bordello di Maeve Millay (Thandie Newton), fingersi fuorilegge o vivere tranquillamente come pionieri, a seconda di ciò che desiderano. Gli ignari cittadini robotici possono essere uccisi, malmenati, stuprati, senza conseguenze. Durante la notte saranno rimessi in sesto, la loro memoria cancellata, e torneranno a ripetere i loro soliti schemi comportamentali. Sono programmati per non nuocere ad alcun essere vivente, quindi non rappresentano un pericolo per i visitatori: non possono nemmeno uccidere una mosca.
Fra di essi c’è Dolores Abernathy (Evan Rachel Wood), una ragazza che vive coi genitori nella campagna che circonda la città. Il suo spasimante è Teddy Flood (James Marsden), ma Dolores è oggetto delle attenzioni dell’Uomo in Nero (Ed Harris), un misterioso visitatore che uccide Teddy e la violenta nel fienile. Ovviamente i due androidi vengono ripristinati e immessi nuovamente nel parco.
A governare l’attrazione ci sono il creatore Robert Ford (Anthony Hopkins) e il suo braccio destro Bernard Lowe (Jeffrey Wright), che controllano il funzionamento dei robot e introducono nuove caratteristiche per renderli sempre più “umani”. Ford, all’insaputa di tutti, ha appena aggiunto una novità nell’ultimo aggiornamento del software: gli androidi possono accedere alla memoria delle loro configurazioni passate, simulando una sorta di subconscio che permette loro di fantasticare, sognare, perdersi nei ricordi delle loro vite precedenti. Alcuni robot cominciano a sperimentare dei malfunzionamenti (si bloccano, ripetono le parole), mentre il padre di Dolores, dopo aver trovato la foto di un visitatore che ritrae il centro di Manhattan, comincia a mettere in dubbio se stesso e la realtà in cui vive. Un’analisi rivela che non si tratta di un semplice glitch: il subconscio ha proprio cambiato la psicologia dei robot. Il padre di Dolores cita Shakespeare mentre parla con Ford, ricordandosi di quando veniva impiegato come maestro della scuola, e il suo atteggiamento ha qualcosa di minaccioso: vuole vendicarsi sui suoi creatori. Viene confinato nei sotterranei, insieme agli altri androidi difettosi.
Theresa Cullen (Sidse Babett Knudsen), capo della sicurezza di Westworld, ordina il ritiro di tutti i robot che sono stati aggiornati con l’ultima versione del software, causando qualche problema nelle storyline in corso: gli sceneggiatori sono costretti ad anticipare l’arrivo in città del bandito Hector Escaton (Rodrigo Santoro), che compie una violenta rapina – durante la quale resta ucciso anche Teddy – ma viene fermato da un visitatore. Dolores, disattivata da un membro dello staff, viene portata in laboratorio e interrogata, ma non sembra esserci niente di anomalo in lei. Bernard svela che Dolores, nonostante i numerosi miglioramenti che ha ricevuto nel corso degli anni, è il loro androide originale, il primo di Westworld. Intanto, l’Uomo in Nero tortura uno dei robot per ragioni sconosciute, gli taglia lo scalpo e scopre un misterioso marchio al suo interno.
Dolores torna alla sua solita vita, con un nuovo androide a farle da padre. La ragazza è in piedi sul portico, e una mosca si posa sul suo volto. Al contrario di quanto succede di solito, stavolta Dolores la schiaccia con un movimento repentino del braccio.

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La psicanalisi dell’androide
Tra le molte differenze che separano il film di Michael Crichton dalla serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy, ce n’è una particolarmente significativa: Westworld si focalizza sull’androide, non sull’essere umano, il cui ruolo è invece centrale sia ne Il mondo dei robot sia nella riflessione filosofica dominante. Siamo abituati a porre l’uomo al centro dell’universo, ed è proprio in relazione all’uomo che noi “giudichiamo” gli androidi, creati a nostra immagine per replicare i nostri schemi mentali, il nostro comportamento e forse persino le nostre imperfezioni. A tal proposito Mario Perniola, ne Il sex-appeal dell’inorganico, nota che gli androidi (o replicanti, o simulacri) sono caratterizzati da “un sentire che non è ancora pienamente umano”, poiché non riescono a eguagliare il modello del loro inventore: per quanto rifiniti, avranno sempre una “falla” che rivelerà la loro natura artificiale.

Al fine di rendere gli androidi ancor più credibili, il “creatore” Robert Ford li dota di una funzione che – permettendo loro di accedere alle memorie delle configurazioni precedenti – simula il subconscio, aprendo le porte a un mondo di ricordi, sogni e fantasticherie che sfugge al controllo degli umani. Di fatto, grazie al subconscio, i replicanti acquisiscono una forma rudimentale di autonomia psicologica, e si liberano momentaneamente dalle briglie dei loro inventori: conquistando la possibilità di un dialogo privato all’interno di loro stessi, essi si smarcano dal ruolo di vittime definitive, poiché quel barlume d’indipendenza li salvaguarda dalla sottomissione totale. Westworld è il luogo dove ogni carnefice può concretizzare la sua utopia più grande, quella di assoggettare completamente la vittima alle sue angherie, ma l’introduzione del subconscio negli androidi vanifica tale chimera, e stravolge il rapporto utilitaristico tra umano e artificiale. L’idea è brillante, poiché fornisce una giustificazione concreta per il malfunzionamento dei replicanti e per il “salto evolutivo” che ne consegue.

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Grazie a queste premesse, Jonathan Nolan e Lisa Joy possono privilegiare il conflitto interiore degli androidi, delineandoli come “oppressi” e sfruttando la simpatia del pubblico nei loro confronti: d’altra parte, i robot empatici di Asimov e gli androidi introspettivi di Philip Dick hanno spianato la strada a una rilettura “umanista” delle creature artificiali, non più rappresentate come mostri tecnologici o servi ubbidienti, ma come individui complessi che vivono una propria interiorità. La serie parte proprio da qui, e l’episodio pilota comincia a seminare un dubbio inquietante: possibile che gli androidi siano moralmente più affidabili degli esseri umani? Certo, i robot agiscono secondo schemi prefissati (Dolores è stata progettata per essere dolce e sensibile, Hector per rapinare le banche, e così via), ma il subconscio scardina ogni modello prefissato, e l’inquadratura finale è il primo vagito del cambiamento: Dolores, concepita per non nuocere ad alcun essere vivente, uccide una mosca che le si era posata sul volto. Un gesto apparentemente innocuo, ma rivoluzionario.

In questa circostanza emerge il talento di Jonathan Nolan per le connessioni interne, la metonimia, gli elementi ricorrenti che sembrano marginali e poi si rivelano di estrema importanza: The Original è ricco di trovate simili, e la sceneggiatura procede gradualmente, lasciando crescere la tensione fino agli scoppi di violenza improvvisi, dove permane sempre un velo di ambiguità. Umani e androidi sono spesso indistinguibili, e il copione gioca moltissimo su questa confusione disturbante. Quando assistiamo ai movimenti scattosi o convulsi di un robot danneggiato, il senso di inquietudine diviene ancora più intenso, perché animare la materia inanimata è fondamentalmente innaturale (d’altra parte, non è la stessa inquietudine che proviamo di fronte allo stop-motion?).

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I replicanti sono gli attori di molteplici storyline create apposta per divertire i ricchi visitatori, i quali possono dare sfogo ai loro più bassi istinti carnali sui poveri corpi degli androidi. Di fatto, Westworld mette in scena un enorme gioco di ruolo che estremizza i concetti basilari della società dello spettacolo: intrattenimento per pochi privilegiati (se consideriamo la popolazione occidentale rispetto al resto del mondo), seduzione tecnologica e reiterazione infinita degli schemi narrativo-rappresentativi, poiché le storyline del parco si ripetono costantemente, ogni giorno, e gli androidi rivivono sempre le stesse giornate come il protagonista di Groundhog Day (ma senza il ricordo delle esperienze precedenti). Una colossale trappola di vessazione e prevaricazione che non si preoccupa dell’orrore vissuto dalle vittime, ma solo del piacere dei carnefici. La distanza tra umani e robot è ulteriormente sottolineata dal contrasto ambientale, che paradossalmente ribalta gli stereotipi: gli umani si muovono in laboratori algidi e razionali, dove il bianco dei neon e dei tessuti artificiali risalta contro il nero delle stanze, mentre gli androidi sono circondati dal calore del deserto e della luce solare. Il merito è di una fotografia elegantissima, coadiuvata da effetti speciali altrettanto raffinati che danno forma “materica” alla costruzione dei replicanti. I laboratori di Ford paiono usciti da un incubo metafisico.

A giudicare da questo primo episodio, insomma, i temi esistenziali sembrano più importanti delle spiegazioni logiche (come fanno i gestori del parco ad assicurarsi che i visitatori non si uccidano tra loro? O che si riconoscano in quanto umani?), ma il fascino della serie resta intatto, così come la qualità dei dialoghi e il talento dell’incredibile cast. Siamo dalle parti di una fantascienza matura, a tratti contemplativa, ben lontana dalle produzioni hollywoodiane che tendono a infantilizzare il pubblico con gli spettacoli pirotecnici: Jonathan Nolan e Lisa Joy lo mettono in chiaro fin dall’inizio, e seguirli sarà un vero piacere.

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La citazione:
«Immagino che anche illudersi sia un prodotto della selezione naturale.»

Ho apprezzato:
– L’approccio maturo al genere fantascientifico
– Il subconscio come causa scatenante del cambiamento
– La raffinata costruzione visiva dei due ambienti
– L’ambiguità tra umani e robot
– La tensione crescente
– La predilezione per le tematiche esistenziali
– Il talento del cast

Non ho apprezzato:
– La trascuratezza di alcuni dettagli logici

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