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Black Mirror – Le recensioni di San Junipero, Men Against Fire e Hated in the Nation

Pubblicato il 31 ottobre 2016 di Lorenzo Pedrazzi

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La seconda metà della terza stagione di Black Mirror, disponibile su Netflix, continua a rielaborare diversi generi cinematografici per riflettere sul presente attraverso il filtro della fantascienza: i valori produttivi sono aumentati, così come la durata media dei singoli episodi, e Charlie Brooker consolida le sue ambizioni di narratore televisivo.. Vi ricordo che le recensioni possono contenere SPOILER.

SAN JUNIPERO

Diretto da Owen Harris (già regista di Be Right Back, primo episodio della seconda stagione), San Junipero ci proietta nel 1987, dove la timidissima Yorkie (Mackenzie Davis) comincia a esplorare la vita notturna dell’eponima città, adagiata sulla riva del mare in un contesto paradisiaco. In un locale incontra Kelly (Gugu Mbatha-Raw), ragazza spigliata e attraente che si fa aiutare da lei per scaricare Wes (Gavin Stenhouse), un tizio con cui è stata a letto. Dopo aver chiacchierato un po’, Kelly le propone di passare la notte insieme, ma Yorkie rifiuta perché già impegnata. Una settimana dopo, Yorkie torna in cerca di Kelly, e stavolta le cose vanno in modo diverso: le due ragazze si baciano, poi si trasferiscono nella villa sul mare di Kelly e fanno l’amore. A mezzanotte, però, entrambe spariscono.

Nelle settimane successive, Yorkie cerca di nuovo Kelly, ma Wes le dice che potrebbe trovarsi negli anni Novanta o nei primi anni Duemila. Yorkie la incontra nel 2002: inizialmente Kelly la rifiuta perché sta per morire, e si è connessa con San Junipero solo per divertirsi, ma in seguito le due ragazze si riavvicinano e trascorrono un’altra notte insieme, prima che scada il loro tempo di prova. San Junipero è in realtà un luogo virtuale dove i malati terminali del futuro possono ricollocare le loro coscienze: se lo desiderano, dopo la morte, possono far trasferire la propria mente all’interno del programma, e vivere per sempre nell’epoca che desiderano, felici e spensierati, senza pericolo di farsi male. Kelly e Yorkie sono due donne anziane che stanno per morire, ma Kelly è ancora vigile, mentre Yorkie è in stato comatoso. Yorkie vuole vivere perennemente a San Junipero, ma la sua famiglia – che non ha mai accettato il suo orientamento sessuale – è molto religiosa, e non acconsente all’eutanasia; per questa ragione, il suo infermiere Greg la sposerà per poter scavalcare i familiari e concederle il riposo. Kelly, però, non vuole che Yorkie sposi qualcuno che non ama, quindi si connette nuovamente con San Junipero per farle una proposta di matrimonio…

San Junipero è indubbiamente l’episodio più emotivo di questa terza stagione, poiché Charlie Brooker – come aveva già fatto in Be Right Back – trasfigura la fantascienza attraverso i tòpoi del melodramma. L’approccio anti-didascalico non affretta le rivelazioni (è chiaro fin dai primi minuti che quello non è il vero 1987, ma lo si deduce da scampoli di dialogo o altri dettagli, non da uno spiegone preliminare), mentre la sceneggiatura illumina un’ossessione endemica del mondo occidentale che si è intensificata negli ultimi anni: la nostalgia per un passato idealizzato, percepito come migliore e più genuino dell’eterno presente in cui viviamo. Che si tratti di epoche mai vissute o quantomeno sfiorate, i decenni che vanno dagli anni Sessanta ai Novanta sono considerati gli ultimi depositari della “novità”, ovvero gli ultimi capaci di stabilire un’atmosfera riconoscibile, un gusto preciso e tendenze estetico-artistiche ben definite. Il punto, però, è che spesso la conoscenza di tali epoche viene filtrata dal setaccio del cinema o della televisione, che tende a privilegiare determinati aspetti e a semplificare il quadro complessivo, focalizzandosi soltanto sugli elementi più coloriti: insomma, San Junipero mette in scena il 1987, il 1996 e il 2002 in modo volutamente stereotipato, perché vuole ricordarci l’artificiosità e l’inaffidabilità dei ricordi, troppo spesso manipolati dall’immaginario cine-televisivo.

L’episodio ha riscosso un meritato successo, ma l’impressione è che gran parte della sua fama sia dovuta proprio a quell’ingenua nostalgia su cui Brooker e Harris gettano uno sguardo critico. Il finale “lieto” – sintomo dell’affetto che gli autori prova per le protagoniste e la loro storia d’amore – può sembrare incoerente rispetto alla filosofia di Black Mirror, ma lo è soltanto a un livello superficiale: la felicità, infatti, giunge solo dopo la morte, nell’illusione di un mondo fittizio che offre un rifugio dall’invadenza della tecnologia nella vita privata (persino il 2002, pur essendo abbastanza recente, è un’era pre-social e pre-smartphone). L’allegra cittadina balneare è un luogo della mente, come il sogno di Sam nel finale di Brazil o l’isola di Kelvin sul pianeta Solaris; in tal senso, San Junipero è molto più che un semplice melò intimista: è una meditazione sul potere sedativo e paralizzante della nostalgia, rievocata in ogni cover musicale, in ogni remake cinematografico e in ogni tentativo feticista di riportare in vita un’epoca che non c’è più.

MEN AGAINTS FIRE

Regista di House of Cards e della prossima serie The Alienist (dove ha rimpiazzato Cary Fukunaga), Jakob Verbruggen dirige Men Against Fire, episodio ambientato in un futuro livido e cupo: il protagonista Stripe (Malachi Kirby) si è appena arruolato nell’esercito, attualmente impegnato in una dura battaglia contro i cosiddetti “scarafaggi”, aberrazioni genetiche provocate da una guerra precedente. Si tratta di creature umanoidi con il volto mostruoso e le zanne pronunciate, che si muovono e si comportano come animali. Stripe, come ogni soldato, ha un impianto cibernetico chiamato MASS che lo aiuta in battaglia, permettendogli di visualizzare obiettivi, piantine e altre informazioni strategiche.

Alla sua prima uscita con la squadra, Stripe uccide ben due scarafaggi, ma uno di essi aveva una strana torcia che proietta la sua luce verde negli occhi del soldato, causando dei problemi crescenti con il suo MASS. Stripe comincia ad avvertire sensazioni che aveva dimenticato, come l’odore dell’erba. Durante una missione, la caposquadra Medina (Sarah Snook) viene uccisa da un colpo di fucile, e Stripe si ritrova da solo con Ray (Madeline Brewer), compagna d’armi con cui ha fatto amicizia. Entrano in un edificio dove si nascondono gli scarafaggi, e il ragazzo comincia a vederli per quello che sono realmente: normali esseri umani. Dopo aver salvato una donna (Ariane Labed) e un bambino da Ray, la donna gli spiega che il MASS alterava i suoi sensi, facendogli vedere lei e gli altri perseguitati come spaventosi mutanti, quando invece sono soltanto persone che, considerate geneticamente inferiori, subiscono una campagna di epurazione da parte del governo. Quest’ultimo utilizza gli impianti cibernetici per ingannare i soldati e facilitare i loro compiti sul piano “morale”, mentre la torcia che ha colpito Stripe è un dispositivo creato dagli “scarafaggi” per disinnescare il MASS…

Il titolo dell’episodio deriva dal libro Men Against Fire: The Problem of Battle Command (1947) di Samuel Lyman Atwood Marshall, ufficiale dell’esercito americano che rifletté sulla ritrosia dei soldati a sparare contro i nemici durante la Seconda Guerra Mondiale. Il dottor Arquette, lo psicologo che si occupa di Stripe, fa riferimento al volume di Marshall e al libro On Killing di Dave Grossman per evidenziare la natura fondamentalmente empatica degli esseri umani e il loro rifiuto a uccidere i propri simili, da cui deriva l’evoluzione delle tecniche di addestramento. Si approda quindi a un vero e proprio condizionamento mentale (già palese nell’esercito americano a partire dalla guerra del Vietnam), ma la presenza crescente della tecnologia nei conflitti bellici tende a un’ulteriore disumanizzazione del soldato, trasformato in una creatura ibrida che ricorda il cyborg.

Men Against Fire riflette proprio su questo sradicamento forzato dei sentimenti e delle percezioni sensoriali (dall’empatia all’olfatto, capace di distrarre e di suscitare ricordi sopiti), finalizzato al genocidio: se l’obiettivo della guerra è disumano, i suoi “attori” devono esserlo altrettanto. Charlie Brooker rilegge quindi il genere bellico alla luce di una fantascienza distopica che cita le interfacce grafiche dei moderni videogame, poiché la guerra si riduce a un esercizio elettronico che maschera il vero orrore dietro all’efficienza. La focalizzazione narrativa è tutta interna a Stripe: il pubblico scopre la realtà progressivamente, identificandosi con il senso di disagio che lo perseguita. Come in San Junipero (ma in modo più pessimista), anche qui la felicità è un’illusione della tecnologia, che stende il velo di Maya sopra una verità troppo dolorosa da sopportare. Stripe accetta di farsi riattivare il MASS e di cancellare la memoria degli eventi recenti, accoccolandosi nella menzogna di una vita perfetta, con la donna dei suoi sogni e il sole splendente, lontano dalla sofferenza e dalla solitudine di una vita non-tecnologica. Inevitabile pensare ai numerosi filtri che la tecnologia di consumo (soprattutto con i social network) frappone tra la realtà e la sua rappresentazione: ognuno di noi, in fondo, mette in scena la propria esistenza come vuole, smussando i bordi e arricchendo i colori. Men Against Fire non fa altro che denudarne la falsità.

HATED IN THE NATION

Hated in the Nation è il primo vero lungometraggio nella storia di Black Mirror (dura 89 minuti), ed è diretto da un regista televisivo di grande esperienza come James Hawes, già attivo su Doctor Who e Penny Dreadful. Siamo in un futuro non troppo lontano, dove l’estinzione delle api rischia di spingere il mondo sull’orlo di una catastrofe ambientale, ma una compagnia chiamata Granular – in collaborazione col governo inglese – ha messo a punto le ADI (Autonomous Drone Insect), api robotiche che impollinano i fiori al posto di quelle vere. La detective Karin Parke (Kelly MacDonald) e la sua nuova partner Blue (Faye Marsay) vengono assegnate al caso della giornalista Jo Powers (Elizabeth Berrington), morta nella sua abitazione in circostanze poco chiare. La giornalista era oggetto di odio da parte dell’opinione pubblica a causa di un suo articolo dove attaccava una donna paraplegica, leader della lotta per i diritti dei disabili. Su Twitter, il nome di Jo Powers era stato associato all’hashtag #DeathTo, utilizzato dagli internauti per attaccare i personaggi più detestati. Accantonati i sospetti sul marito, l’autopsia rivela che nella testa della donna c’era un’ADI, localizzata proprio nel centro del dolore: Jo si è tolta la vita in preda a un raptus incontrollato, per sfuggire a quella sofferenza.

Un rapper muore in modo simile, e anche nel suo cervello viene trovata un’ADI. Era stato a sua volta bersagliato dall’hashtag #DeathTo per aver preso in giro un bambino che cercava di imitarlo. Shaun Li (Benedict Wong), un agente della National Crime Agency, indaga sull’incidente, e il suo cammino s’incrocia con quello di Karin e Blue: due circostanze identiche non possono essere un caso. Gli investigatori si recano alla Granular e scoprono che i sistemi della compagnia sono stati hackerati, ma l’unico modo che hanno le ADI per colpire una persona specifica è utilizzare un sistema di riconoscimento facciale: ciò significa che il governo le sta usando anche per sorvegliare i cittadini, come ammette Shaun. La correlazione tra l’hashtag e gli attacchi delle ADI è ormai palese, ma gli agenti ben presto si rendono conto che il vero obiettivo del misterioso hacker non sono le vittime di #DeathTo, bensì quelli che hanno fomentato l’odio twittando l’hashtag…

In quanto lungometraggio, Hated in the Nation si prende i suoi tempi per dipanare un intreccio che si sviluppa per gradi, disorientando lo spettatore con una struttura a flashback (l’intera vicenda è raccontata da Karin durante un’udienza) che accumula diversi indizi e false piste prima di giungere alla verità. Charlie Brooker flirta con il giallo, poiché la sua sceneggiatura contamina la fantascienza con il genere investigativo: le due detective cercano di riportare ordine nel caos, ma la glaciale efficienza del Sistema (già deviato di per sé, poi ulteriormente corrotto dall’hacker) è invulnerabile, e si rivolta contro i suoi stessi creatori. Altrettanto algide sono le atmosfere dell’episodio, ispirate ai thriller scandinavi come The Killing e Borgen, ma i temi portano la firma inconfutabile di Black Mirror: ancora una volta, il futuro è lo specchio del presente.

Internet e i social network sono il porto franco dell’odio globale, un regno fatato dove esercitare una violenza verbale sconcertante, ancora più intensa perché priva di conseguenze. Hated in the Nation gioca proprio su questo concetto: responsabilizza i fautori dell’odio virtuale, rendendoli complici di una violenza reale. Può sembrare un po’ retorico e didascalico, ma la penna di Brooker è affilata come un coltello, e ritrae la deriva parossistica di un atteggiamento che esiste già nella nostra vita quotidiana, figlio dell’immaturità dell’utenza media. David Fincher e Aaron Sorkin l’avevano già capito ai tempi di The Social Network: ciò che accade su internet si ripercuote sulla vita reale, e per molte persone queste due dimensioni hanno la medesima importanza. Nel mostrare le conseguenze concrete dell’odio telematico (peraltro già responsabile di numerosi suicidi), l’episodio mette sullo stesso piano la sfera del virtuale e quella del reale, con una limpidezza scioccante. L’epilogo vagamente consolatorio suggerisce la futura punizione del colpevole, ma non alleggerisce i toni di una storia così spaventosamente verosimile, al di là dei suoi elementi fantascientifici.

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