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Il debutto di Black Mirror su Netflix coincide con un rinnovamento importante per la serie di Charlie Brooker, la cui terza stagione ne accresce (se possibile) le ambizioni creative: grazie al coinvolgimento di registi cinematografici, al miglioramento dei valori produttivi e all’aumento della durata media, i singoli episodi si strutturano come film in miniatura, veri e propri mediometraggi che rielaborano i tòpoi dei generi classici. Ripercorriamo nel dettaglio i primi tre, ma vi segnalo che le recensioni possono contenere SPOILER.
Diretto da Joe Wright (Espiazione, Hanna, Anna Karenina, Pan), Nosedive è ambientato in un futuro dove le classi sociali non sono più determinate dal reddito, ma dalla popolarità e dall’approvazione altrui: ogni cittadino è iscritto a un social network dov’è possibile attribuire un voto in stelline (da 1 a 5) al profilo degli altri utenti, influenzandone così la media. Ogni interazione sociale – l’incontro con un vicino di casa, l’acquisto di un prodotto, la conversazione con un collega o amico – viene valutata attraverso quel sistema, e questo genera comportamenti forzatamente cordiali, atti di gentilezza interessata e sorrisi costanti. La media influisce profondamente sulla vita degli individui: i servizi (dai voli al noleggio di automobili, passando per le agevolazioni finanziarie) sono tarati su questa suddivisione sociale, e per accedere a determinati privilegi è necessario godere di una media che va dal 4.5 in su.
Lacie (Bryce Dallas Howard) è una donna ossessionata dalla propria valutazione, e si sforza quotidianamente per aumentare la sua media: si scatta delle foto mentre corre, prende il caffè solo per allestire un quadretto rilassante, si comporta gentilmente con tutti quelli che incontra. Desidera trasferirsi in un quartiere esclusivo, ma la casa dei suoi sogni è troppo costosa, e per ottenere un’agevolazione sul finanziamento deve aumentare la sua media da 4.2 a 4.5. Con una foto nostalgica, riesce ad attirare l’attenzione di Naomie (Alice Eve), sua amica d’infanzia che vanta una media di 4.8, e quindi fa parte di una classe sociale elevata. Naomie sta per sposarsi, e chiede a Lacie di farle da damigella d’onore e di scrivere un discorso commovente per il pranzo di nozze; un’opportunità irripetibile, poiché gli invitati al matrimonio saranno tutti altolocati, e la loro approvazione permetterà a Lacie di far schizzare il suo rating. Purtroppo, però, le cose non andranno come previsto…
Nel copione riecheggia l’ironia paradossale di Mike Schur e Rashida Jones (Parks and Recreation), ma il soggetto è firmato da Charlie Brooker, e si sente: Nosedive è una satira distopica dove il “sistema” appare come un leviatano invulnerabile, e qualunque tentativo di ribellione è puramente solipsistico, poiché si risolve soltanto nel singolo individuo. Certo, l’idea di fondo non è affatto nuova, soprattutto se consideriamo che un brillante episodio di Community – intitolato App Development and Condiments – lavorava esattamente sulla stessa intuizione, ma ciò non significa che Nosedive sia privo di meriti personali. Joe Wright ha l’eleganza e il rigore necessari per costruire un incubo color confetto, popolato da case che sembrano giocattoli e da facce sorridenti che sfociano nel grottesco: in tal senso, il volto angelico di Bryce Dallas Howard coagula le assurdità di un meccanismo assassino e prevaricante, ma sempre illuminato da una luce cordiale. L’attrice americana ci offre così una delle sue interpretazioni più sfumate, dove la disperazione emerge pian piano sotto numerosi strati di aggressività passiva.
Non è difficile scorgere in Nosedive i riflessi del nostro attuale rapporto con la tecnologia; semplicemente, la fantascienza ha il pregio di condurli all’eccesso, rendendoli ancora più palesi: le dinamiche raccontate in questo episodio esistono già sui social network (dove la popolarità ha un peso consistente), ma la differenza è che il futuro immaginato da Charlie Brooker le traspone nella vita reale. Sfere d’influenza e approvazione popolare non sono soltanto un sedativo narcisistico (come accade oggi su Facebook, Twitter o Instagram), bensì il fondamento di una società che dà importanza soltanto alle nostre “maschere”, alle costruzioni artificiose che traspaiono dai profili social. La distopia di Nosedive è una prigione autoimposta che cerca di mondare l’umanità dalle sue declinazioni più scandalose – gli istinti, la rabbia, le reazioni di pancia, le oscenità verbali – per sterilizzarla, rendendola asettica e disperatamente egotista. Alcuni momenti suonano didascalici e un po’ scontati (l’incontro con la camionista che ha rinunciato a coltivare la sua popolarità), ma il quadro generale risulta piuttosto efficace: un pugno allo stomaco che facilita l’autocoscienza.
Alla regia di Playtest c’è Dan Trachtenberg, che ha già mostrato il suo talento nel validissimo 10 Cloverfield Lane. Il protagonista è Cooper (Wyatt Russell), un ragazzo che parte per un viaggio intorno al mondo e si rifiuta di rispondere alle chiamate di sua madre: non riesce a ristabilire un contatto con lei dopo la morte del padre, che ha visto scivolare via lentamente a causa dell’Alzheimer. A Londra, durate la sua ultima settimana di vacanza, incontra Sonja (Hannah John-Kamen), con cui trascorre una notte. La sua carta di credito viene clonata, e Cooper si ritrova al verde; per guadagnare qualcosa, utilizza un’app chiamata Oddjobs che offre varie opportunità lavorative da cogliere al volo, e fra di esse Sonja ne individua una interessante: fare il tester per un nuovo gioco della SaitoGemu, una software house molto conosciuta per i videogame horror.
Cooper si reca nella sede della compagnia, e viene accolto da Katie (Wunmi Mosaku), che lo porta in una stanza bianca per fargli provare una tecnologia innovativa. La donna si allontana un momento, e Cooper riaccende il cellulare per scattare una foto all’apparecchiatura in questione: Sonja gli aveva consigliato di farlo, perché un’immagine del genere potrebbe valere molti soldi. Il ragazzo fa appena in tempo a riporre il cellulare prima che Katie ritorni, ma non riesce a spegnerlo. Lei gli impianta un piccolo dispositivo – chiamato “fungo” – dietro al collo, e poi avvia il processo di inizializzazione. Il cellulare suona, è la madre di Cooper, ma Katie lo spegne. Davanti agli occhi del ragazzo compare una talpa in grafica 3D, e la donna lo invita a giocare una partita di Whac-a-Mole. Cooper è impressionato da questa tecnologia, ma si tratta solo di una beta. Katie lo porta da Shou (Ken Yamamura), il fondatore della SaitoGemu, e il ragazzo accetta di fare da tester anche per il gioco vero e proprio: dovrà trascorrere la notte in un cottage, dove il “fungo” materializzerà le sue più grandi paure sotto forma di personaggi digitali…
Playtest ri-media la costruzione narrativa di un film horror, genere cui appartiene a tutti gli effetti: il prologo svolge una funzione introduttiva che, oltre a delineare i conflitti emotivi del protagonista, serve per trasmettere un falso senso di sicurezza nel pubblico, il quale si ritrova improvvisamente catapultato in un incubo a scatole cinesi. Dan Trachtenberg è bravo a costruire la tensione, poiché un velo di minaccia si fa sentire fin da quando Cooper mette piede alla SaitoGemu, per poi esplodere nelle raccapriccianti apparizioni notturne che lo infestano il cottage. D’altra parte, la ricerca costante del fotorealismo è una tendenza che non coinvolge solo la grafica dei videogame, ma anche l’esperienza stessa del gioco: i caschi per la realtà virtuale, appena tornati di moda, procedono esattamente in quella direzione. Charlie Brooker porta il concetto all’estremo, fino al parossismo di un gioco che attinge al subconscio per adattarsi al giocatore, rendendo ogni sessione diversa e terrificante.
Ogni sequenza dell’episodio è un inganno, e Playtest gioca sulla confusione tra reale e virtuale in modo imprevedibile, serbando l’ultimo scherzo per la scena di chiusura: proprio quando si pensa di avere la soluzione, il copione scarta bruscamente e ci riporta all’inizio, poiché la nostra percezione dei fatti – come per Cooper – non è mai affidabile. Insomma, l’ansia di realismo genera mostri, anche in senso letterale: l’industria dell’intrattenimento sogna di infrangere la barriera tra soggetto guardante (o giocante) e oggetto guardato (o giocato), ma non si rende conto che il cuore dell’esperienza risiede proprio in quella barriera, in quella distanza salvifica tra pubblico e prodotto. Impietoso, a tratti disturbante, Playtest non lascia alcuno scampo a chi si rifugia in un “altrove” utopistico (la fuga materiale o virtuale) per evitare i propri tormenti emotivi. La fantascienza si dimostra così estremamente permeabile agli altri generi, e la commistione con l’horror funziona benissimo.
Anche Shut Up and Dance è diretto da un regista con molteplici esperienze cinematografiche, James Watkins (Eden Lake, The Woman in Black, Bastille Day). La vicenda ruota attorno a Kenny (Alex Lawther), un adolescente tranquillo che lavora in un fast food, dov’è oggetto di bullismo da parte di alcuni colleghi. Sua sorella gli ruba il computer per vedere un film illegalmente, ma il laptop viene infettato da un malware, e il ragazzo scarica un software gratuito per ripulirlo. Un misterioso hacker riesce così ad accedere alla webcam, e riprende Kenny mentre si masturba davanti ad alcune foto su internet. L’hacker gli invia un’e-mail con il video, intimandogli di comunicargli il suo numero di cellulare, altrimenti manderà il filmato a tutti i suoi contatti. Kenny, spaventato, obbedisce. Un messaggio gli comunica di tenere il cellulare sempre carico, con la geolocalizzazione accesa, e attendere ulteriori consegne.
Il giorno dopo, appena giunto al lavoro, Kenny riceve un messaggio che gli ordina di recarsi a un determinato indirizzo entro le 12, quindi il ragazzo finge di stare male e si mette in cammino. Sul posto gli viene consegnata una scatola contenente una torta: il “fattorino” è un altro uomo che viene ricattato dalla stessa persona. Kenny deve portare il pacco in una stanza d’albergo, dove trova Hector (Jerome Flynn), un uomo che sta aspettando una escort. Anche lui viene ricattato: se non esegue gli ordini, la moglie scoprirà tutto. Hector e Kenny prendono una macchina (lasciata lì da una donna, anch’ella ricattata) e si recano sul posto indicato dall’hacker. Nella torta ci sono un cappello, un paio di occhiali e una pistola: uno di loro dovrà compiere una rapina in una banca, l’altro resterà fuori ad aspettarlo in macchina. Kenny non ha la patente, quindi si occupa lui della rapina, che ha successo nonostante il ragazzo se la faccia letteralmente addosso. Lui e Hector raggiungono l’ultimo luogo indicato dalla mappa: l’uomo dovrà distruggere l’automobile, mentre Kenny s’incammina per portare i soldi in mezzo al bosco…
Shut Up and Dance è un meccanismo spietato e impeccabile, poiché stimola l’empatia nei confronti del protagonista (il classico “perdente”, emarginato ma di buon cuore) solo per farci cadere in un tranello cinico e crudele: la pratica dell’autoerotismo – che tutt’al più gli avrebbe causato una condanna “sociale”, non certo penale – si rivela in questo caso come un atto perverso, nascosto dietro all’apparente innocenza dell’outsider. Charlie Brooker e il co-sceneggiatore William Bridges ci obbligano così ad assumere il punto di vista del “mostro” (in senso giornalistico, nella percezione dell’opinione pubblica) e di osservare l’intera vicenda dai suoi occhi, soffrendo per lui quando gli ordini dell’hacker si fanno sempre più inquietanti. Il merito è anche dell’ottimo Alex Lawther, le cui reazioni sono estremamente “umane” e verosimili, mentre l’immediato carisma di Jerome Flynn – ovvero il Bronn di Game of Thrones – gli fa perfettamente da spalla.
La tensione resta altissima lungo tutto l’arco dell’episodio, che adotta il linguaggio e il ritmo del thriller per evocare un’ansia tipicamente contemporanea: il patema di essere sempre connessi e rintracciabili non giova certo alla nostra libertà, ma riduce sensibilmente gli spazi adibiti all’introspezione, alla vita intima e privata. Certo, il misterioso hacker è una sorta di vendicatore che punisce i torti, ma questa vulnerabilità coinvolge tutti, indipendentemente dalle colpe (o dalla loro intensità: il “peccato” di Hector, per quanto deprecabile, è più veniale rispetto a quello di Kenny o delle altre pedine). Il ribaltamento di prospettiva non è così diverso da quello di White Bear, altro meccanismo ingannevole che usa l’empatia per scioccare il pubblico. In Shut Up and Dance c’è più rigore, più sobrietà, mentre l’inquietudine si fa ben più sottile: la banalità del male è talmente “comune” da risultare praticamente irriconoscibile. E questo la rende ancor più disturbante.
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