Stranger Things – La recensione della serie Netflix che omaggia i cult anni ’80

Stranger Things – La recensione della serie Netflix che omaggia i cult anni ’80

Di Lorenzo Pedrazzi

Su Netflix è disponibile Stranger Things, la miniserie dei fratelli Duffer che unisce horror, fantascienza e mistero nel contesto storico-politico degli anni Ottanta: ma la nostalgia è solo uno degli aspetti che caratterizzano questa operazione…

Weirdos and Monsters Are Due On Maple Street
Ci sono quattro ragazzini che giocano a Dungeons & Dragons nel seminterrato di una villetta unifamiliare, mentre un poster de La cosa campeggia sulla parete. Basta un’occhiata per capire che non sono esattamente i più popolari della scuola, ma sono affiatati, si vogliono bene, e un entusiasmo bruciante sembrare animare ogni loro gesto. Poi ci sono le biciclette, il quartiere residenziale di provincia, l’ignoto che si nasconde nell’ombra, le luci che brillano da un capanno in giardino: insomma, siamo nell’immaginario cinematografico degli anni Ottanta, sorta di luogo mentale dove si sono svolte le più grandi avventure dell’infanzia, quando i pre-adolescenti erano davvero protagonisti delle loro storie. C’è sempre stato un conflitto tra fanciullezza e maturità, in film come E.T., I Goonies o Explorers: l’elasticità mentale e l’ingenuità dei bambini li porta ad accettare l’impossibile in ogni sua forma, mentre gli adulti – paralizzati dalle sovrastrutture e dalle responsabilità dei “grandi” – tendono a diffidare di tutto ciò che esula dalla loro esperienza concreta, e soffocano ogni anomalia sul nascere; per questa ragione, nei film sopracitati e nel qui presente Stranger Things, sono sempre i più giovani a captare i pericoli extra-ordinari, e a schierarsi in prima linea per debellarli.

La prima vittima è il piccolo Will Byers, uno dei quattro ragazzini che giocavano a Dungeons & Dragons: di ritorno a casa, incontra una mostruosa creatura fuggita dai Laboratori Hawkins, e sparisce senza lasciare alcuna traccia. Sua madre Joyce (Winona Ryder) allerta subito il capo della polizia Jim Hopper (David Harbour), ma anche i tre amici di Will – ovvero Mike, Dustin e Lucas – cominciano a indagare per conto proprio. S’imbattono in una strana ragazzina chiamata Eleven, come il numero che ha tatuato sul braccio: indossa soltanto un camice, e ha i capelli talmente corti da farla sembrare un maschio. È scappata anche lei dai Laboratori Hawkins, ma il Dr. Martin Brenner (Matthew Modine) le dà la caccia, dopo averla sottoposta a numerosi esperimenti tra i freddi corridoi della struttura. Brenner è suo padre, ma la vede soltanto come un’arma: Elle – come viene soprannominata da Mike, che la ospita in segreto nel suo seminterrato – possiede infatti degli incredibili poteri psichici che le permettono di compiere azioni sovrumane, muovere gli oggetti con la mente, uccidere con il pensiero e mettersi in comunicazione con altri mondi. La ragazzina dice che Will si trova nel “sottosopra”, una dimensione parallela alla nostra, oscura e mefitica, dove si aggira un mostro terrificante. Così, mentre Joyce comincia a sentire la presenza del bambino grazie all’inspiegabile accensione delle luci di casa, l’intera cittadina è vittima di strane aggressioni, e Hopper cerca di andare a fondo nei misteri dei Laboratori Hawkins. Al fianco di Joyce c’è anche suo figlio maggiore Jonathan, un reietto appassionato di fotografia, che trova un’alleata preziosa in Nancy, sorella maggiore di Will: anche la sua migliore amica è scomparsa, e questo la spinge a indagare, allontanandola dai suoi nuovi amici cool e da Steve, il popolarissimo ragazzo con cui ha appena perso la verginità.

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Little Boy Lost
Se non si fosse ancora capito, Stranger Things ripropone i tratti salienti di un’epoca forse irripetibile, e non solo perché la storia si svolge nel 1983: il mistery per ragazzi è infatti un sottogenere che il cinema non pratica più, soprattutto nelle sue sfumature horror, nonostante alcuni film abbiano tentato di resuscitarlo con esiti piuttosto interessanti, come Monster House, The Hole 3D, ParaNorman e Super 8 (senza dimenticare le rievocazioni nostalgiche di natura più indipendente, basti pensare a Turbo Kid e Earth to Echo). C’è indubbiamente una traccia di feticismo in un’operazione come questa, così radicata nel passato e nella regressione infantile. In fondo, il contesto storico-sociale dello show e i numerosi riferimenti ai cult degli anni Ottanta sortiscono un effetto sedativo: ci chiudono in una bolla temporale rassicurante, ovattata e avvolgente, legata a un’era frivola ed edonistica, ancora lontana sia dalle crisi economiche sia da quell’11/9/2001 che, per la nostra generazione, ha rappresentato la perdita dell’innocenza e il brusco passaggio all’età della ragione (come la guerra del Vietnam per gli americani della generazione precedente, o gli Anni di Piombo per i nostri genitori).

In tal modo, gli astuti fratelli Duffer pizzicano le corde più languide dei trentenni odierni, offrendo loro una macchina del tempo che funziona benissimo lungo tutto l’arco degli otto episodi, sigla compresa. Ma la serie non risulterebbe così efficace se non garantisse un equilibrio adeguato tra citazionismo e rielaborazione moderna: essendo realizzata da (e per) un gruppo di adulti nostalgici, Stranger Things non si limita a riproporre i suoi modelli di riferimento, ma li rilegge da una prospettiva più consapevole e meno sognante, che lascia spazio anche per alcuni risvolti cinici e brutali. Elle, per intenderci, non ha remore a utilizzare i suoi poteri per uccidere gli avversari, con effetti che sfiorano gli orrori psicocinetici di Scanners o Firestarter: non è certo un caso che la serie sia vietata ai minori di 14 anni, ma suona paradossale se consideriamo che i film omaggiati dagli autori (come i sopracitati E.T. e I Goonies) erano concepiti per un pubblico di giovanissimi.

Se poi la paragoniamo a un campione di nostalgia come Super 8, i pregi di Stranger Things emergono dalla sua natura seriale: i fratelli Duffer possono prendersi tutto il tempo per sviluppare l’intreccio e i personaggi, bilanciando abilmente il prologo, lo svolgimento e l’epilogo della trama (che invece appariva affrettato nel film di J.J. Abrams). I flashback, mai invadenti, compaiono senza soluzione di continuità, favorendo una narrazione fluida dove i dialoghi non sono quasi mai didascalici: il compito di spiegare gli eventi spetta alle immagini, non alle parole, e le brevi sortite nel passato dei protagonisti servono a giustificarne i comportamenti e le reazioni istintive. In altre parole, i flashback valorizzano il lato emotivo dell’intera vicenda, facendo appello ai ricordi di Joyce per delineare il suo rapporto con Will, a quelli di Hopper per dissotterrare la memoria della figlia deceduta, e infine a quelli di Elle per denunciare la crudeltà dei Laboratori Hawkins. Il topos dei mondi paralleli, stranamente ignorato dal cinema, si conferma vincente sul piccolo schermo (I viaggiatori, Fringe…) e introduce un ulteriore elemento di novità in un immaginario che solitamente si nutre di altri temi, come la vita extraterrestre, la robotica e il sovrannaturale: Stranger Things, al di là dei suoi riferimenti più palesi, ha il merito di attingere anche da prodotti meno inflazionati come Little Girl Lost di Richard Matheson (il racconto e l’episodio di The Twilight Zone) o The Mist di Stephen King, dove l’esistenza di altre dimensioni genera il panico in ambienti familiari e suburbani. La trama è prevedibile ma solida, caratterizzata da una sorta di “moderna classicità” che unisce le esigenze della nostalgia a quelle dell’intrattenimento contemporaneo.

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The Monster Squad
Coerentemente con i suoi modelli cinematografici, la serie mette in scena il riscatto degli outsider in una sottocultura machista dove sensibilità e timidezza – in un maschio – sono oggetto di derisione: è proprio ciò che accade al piccolo Will, tacciato di queerness perché tranquillo e sensibile, interessato allo studio e al disegno più che alle prove di forza virile. Lo stesso discorso vale anche per Mike, la cui famiglia è l’emblema della borghesia americana di provincia. Lo slancio vitale del bambino e di sua sorella stride con l’idiozia dei loro genitori, coppia di conformisti che si fidano ciecamente del governo e non osano mettere in discussione l’autorità («Tesoro, dobbiamo fidarci di loro» dice il padre. «È il nostro governo, sono dalla nostra parte»). Si ripropone quindi la vecchia lotta fra l’onestà genuina delle comunità locali e l’oppressione soffocante del governo centrale, secondo una prospettiva complottista che premia gli umili a dispetto dei potenti: fare fronte comune, sfruttando il talento individuale di ognuno, è l’unico modo per sfuggire al giogo del Sistema.

Anche il cast rispetta quest’idea: Stranger Things è animata da volti meravigliosi e credibili, pienamente anti-televisivi, molto lontani dall’artificiosità patinata delle riviste di moda o di moltissimi show contemporanei. La stessa Winona Ryder, seppure un po’ eccessiva e sopra le righe, non ha nulla del suo antico divismo, mentre David Harbour e Matthew Modine non temono di mostrare i segni dell’invecchiamento o delle imperfezioni fisiche. Ne risulta un forte senso di umanità, soprattutto fra i ragazzini, che interagiscono con naturalezza e si affacciano timidamente sulla soglia della pubertà (come dimostra la tensione palpabile tra Mike ed Elle, frustrata dalla perdita e dal sacrificio).

Questa combinazione di dolcezza e fan service giova nettamente alla serie, poiché ne alleggerisce il feticismo e rende piacevoli anche le suggestioni più “ruffiane”: si vedano, ad esempio, i titoli di testa con la grafica vintage e l’immagine rovinata come in un VHS, o le ottime musiche elettroniche di Kyle Dixon e Michael Stein. Gli easter egg si sprecano, e molte inquadrature sono affollate di poster, libri, fumetti e giocattoli facilmente riconoscibili, con una voracità citazionista che sfiora il parossismo. Si tratta però di dettagli marginali: quel che conta è che i fratelli Duffer abbiano dimostrato l’efficacia di questa formula sulla distanza della miniserie, peraltro spalancando le porte a un eventuale seguito. Considerando l’immediata popolarità dello show e la sensibilità nostalgica del pubblico, non ci sarebbe da stupirsi se Netflix decidesse di accontentarli.

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Ecco il commento video:

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