Da alcuni anni, ormai, il cinema indipendente americano ha riscoperto la fantascienza come mezzo di opposizione alle politiche hollywoodiane, riportando il genere alle sue radici letterarie: lo scrittore Theodore Sturgeon diceva che “un buon racconto di science-fiction è una vicenda di esseri umani con problemi umani e una soluzione umana, che tuttavia non si sarebbe affatto verificata senza quel particolare contenuto speculativo”, e la fantascienza indie – alla pari di alcuni show televisivi come Black Mirror – rispecchia proprio questa definizione; di fatto, essa rimette al centro le problematiche umane e le conseguenze psico-emotive degli eventi che racconta, pur all’interno di conflitti che non esisterebbero senza determinati elementi fantascientifici (spesso con un elevato valore metaforico in relazione al nostro presente). Hollywood, al contrario, tende a privilegiare i risvolti spettacolari della science-fiction, legati all’azione, all’avventura e ai grandi effetti speciali, che sono soltanto una delle molte possibili declinazioni di questo genere magmatico. La sua grande permeabilità rispetto agli altri approcci narrativi (ma anche rispetto a diverse filosofie e Weltanschauung), rende la sci-fi un genere stratificato ed eclettico.
Synchronicity, recentemente aggiunto al catalogo di Netflix, è un valido esempio di quanto la fantascienza indie sappia essere raffinata e imprevedibile, anche per la sua capacità di stimolare la visione attiva dello spettatore. Diretto da Jacob Gentry (lo stesso di The Signal), il film ha come protagonista il fisico Jim Beale, che ha costruito una macchina del tempo con l’aiuto dei colleghi Chuck e Matt, ma necessita del supporto economico del cinico Klaus Meisner per continuare gli esperimenti: ogni viaggio, infatti, costa ben 5 milioni di dollari di materiale radioattivo. Quando la macchina viene attivata, dal futuro si materializza improvvisamente una misteriosa pianta, raro esemplare di dalia. Jim si mette alla ricerca di un fiore con lo stesso DNA per provare che la macchina funzioni, ma lo trova nelle mani di Abby, una donna enigmatica che in passato frequentava Klaus. Poiché Abby dimostra un grande interesse per la sua scoperta, Jim comincia a diffidare di lei: gli sorge il dubbio che stia lavorando per conto di Klaus, determinato ad acquisire i diritti sulla macchina. Il fisico decide quindi di tornare indietro nel tempo di cinque giorni per fermare il tradimento di Abby prima che accada, ricostruendo la verità sulla sua invenzione e sull’affascinante donna di cui si sta innamorando.
Il risultato è un conturbante intreccio di piani temporali che coinvolge la teoria dei mondi paralleli, dove risuonano gli echi di altri film più o meno recenti: non ha la complessità di Primer, la limpidezza di Los Cronocrímenes o il rigore di Predestination, ma Synchronicity riesce a confezionare un soggetto che offre diversi livelli di lettura, pretendendo attenzione e spirito speculativo. L’ultimo atto è molto ambiguo, difficile da interpretare dopo una prima visione, e sicuramente Jacob Gentry pecca di autocompiacimento nel complicare una trama che sarebbe potuta essere più lineare; eppure, ha il merito di conservare intatta la tensione, anche quando indugia in snodi narrativi un po’ confusi o apparentemente gratuiti.
Tutto questo si coniuga con una scelta estetica molto precisa, che dichiara apertamente i suoi debiti verso Blade Runner: l’assenza costante di un’illuminazione diffusa, la penombra che avvolge quasi ogni inquadratura e la greve cupezza della metropoli (indefinita, quindi ancora più alienante) traggono origine dal film di Ridley Scott, come se Gentry e il direttore della fotografia Eric Maddison ne avessero sviscerato ogni singolo minuto per riprodurne l’apparato visivo. Il medesimo discorso tocca inoltre l’accompagnamento sonoro di Ben Lovett, la cui musica elettronica e new age ricorda moltissimo quella di Vangelis. Gli effetti speciali sono però ridotti al minimo, poiché lo scenografo Jeffrey Pratt Gordon è molto abile a reinventare gli spazi, trasfigurandoli in luoghi opprimenti o stranianti: è sempre arduo stabilire le coordinate spaziali e cronologiche della storia (è il presente o il futuro?), e certe architetture monumentali sembrano partorite da un incubo futurista.
Con un’estatica del genere, non sorprende che Synchronicity si rifaccia ad alcuni tòpoi del noir, solitamente associati – nella contaminazione con la fantascienza – alla distopia più disillusa e nichilista. Non è questo il caso: la sensuale femme fatale di Brianne Davis non è realmente nociva per il protagonista, che tende invece all’autodistruzione, tipica del genio “titanico” che sceglie di anteporre la sua volontà alle leggi ancestrali della natura. Ma in un film che sovrappone molteplici linee temporali e interseca altrettante realtà alternative, c’è spazio anche per una storia d’amore che da qualche parte, in uno di questi folli intrecci, potrebbe addirittura concludersi in modo lieto. Toccherà allo spettatore trovare la soluzione dell’enigma, ammesso che ce ne sia una sola.