Paraguay, Liberia, Sud Sudan, Sierra Leone…i dottori che operano su campi di guerra sono degli eroi. Non solo mettono continuamente a repentaglio la propria vita, malattie, infezioni, bombe, sparatorie e rischi di stupro, ma rinunciano snche a vivere relazioni normali, amore, figli, amici, nipoti…Bisognerebbe ricordarselo sempre ed è probabilmente da questo presupposto che è partito Sean Penn quando ha deciso di portare sullo schermo la sceneggiatura di The Last Face. Lui, sempre attento ad utilizzare la propria popolarità per cause altrimenti – a suo avviso – poco discusse o non dal giusto punto di vista, sentiva la necessità di tornare dietro la macchina da presa a distanza di nove anni da Into the Wild con questa storia perché, altrimenti, nessun altro lo avrebbe fatto. Difficile dargli torto, eppure bastano le buone intenzioni da impegno civile per giustificare un film? Crediamo di no.
Ci si commuove ascoltando il discorso finale del personaggio interpretato da una sempre bellissima Charlize Theron, “i rifugiati hanno sogni come noi, sono come noi”. Ha ragione, dovremmo fare di più, tenere l’attenzione più alta, pretendere che le guerre civili in Africa non siano abbandonate a sé stesse e ascoltare con più attenzione chi in quei luoghi c’è stato e salva una vita alla volta perché è l’unica soluzione possibile. Un bel discorso politico, ma non è cinema, non almeno da solo.
Fin dalla didascalia iniziale che annuncia che si sta per assistere alla storia d’amore tra un lui e una lei, viene da sorrideer per la banalità dell’affermazione. Il continuo prosegue sulla stessa falsariga. Omicidi di massa, suicidi indotti, mutilazioni…è un accumulo di dolore e scene che dovrebbero colpirci, ma che, al contrario, infastidiscono e basta, lasciandoci sempre lontani dallo schermo. Perché insistere così e in maniera tanto arbitraria e gratuita? Non è un documentario, un cineasta dovrebbe essere in grado di costruire, attraverso la finzione, un sentimento o un pensiero senza sbattercelo in faccia dieci volte consecutive allo stesso modo.
La relazione tra i due protagonisti si merita in pieno l’aggettivo “melensa”. Si amano perché sono fatti per amarsi, se si complica solo perché ognuno dei due DEVE rappresentare un modo diverso di vivere la vita sul campo e le possibili soluzioni. L’amore come metafora. Peccato che non ci sia profondità nei personaggi, che entrambi esistono solo in funzione nel modo di intendere il lavoro e la relazione, lei stata sprecando la sua vita finché non incontra lui, lui invece è l’uomo perfetto che se non salva il mondo non si sente in pace con sé stesso. E tutto questo, Penn glielo fa dire esplicitamente, caso mai qualcuno non lo avesse ancora capito. E le guerre? Perché ce n’é una in Liberia e una nel sud del Sudan? Non viene spiegato. Ci sono e basta. E l’occidente, Americani e Europei, “dovrebbero fare qualcosa”. Cosa? Non si sa. Ma siamo colpevoli. E il pegno, per fortuna di sole due ore, è The Last Face di Sean Penn.
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