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All’interno della sezione fuori concorso della 18a edizione del Far East Film Festival sono stati presentati una serie di film di genere fantascientifici diretti dai registi giapponesi: Okamoto Kihachi, Kaneko Shusuke, Honda Hishiro e Obayashi Nobuiko che è stato premiato con il Gelso d’Oro alla carriera.
Quarantadue lungometraggi cinematografici realizzati nell’arco di 50 anni, la sua filmografia è caratterizzata dalla sperimentazione sia nelle tecniche visive che narrative. Il suo film più rappresentativo è senza dubbio l’horror House (1977), mostrato nel corso del festival assieme a Exchange Students (1982), The Girl who lept throught time (1983) e School in the Crosshairs (1981).
Conferenza
-Obayashi rivela di aver voluto partecipare alla parata del 71° anniversario della liberazione (tenutasi a Udine il 25 aprile, ndr.), si è commosso ed ha pianto, in questa condivisione della giornata di pace con la generazione che ha vissuto la guerra e i bambini che hanno partecipato.
Cerco sempre di trasmettere il messaggio della pace dalla mia generazione che ha vissuto la guerra a quella che non ha mai visto la guerra.
Mark Schilling presenta il libro ‘Beyond Godzilla. Alternative Futures and Fantasies in Japanese Cinema‘ e parla della riscoperta del film House all’estero.
-Ha visto tutti i film, o quasi, che sono usciti dall’invenzione del cinema fino agli anni ’60 del secolo scorso, si considera un discepolo di Thomas Edison.
-Obayashi parla del cinema hollywoodiano, costituito principalmente dalle persone fuggite dall’Europa durante la prima e la seconda guerra mondiale, che cercavano la pace e la libertà. Segue l’aneddoto sul regista di Casablanca, Michael Curtiz il nome d’arte dell’artista polacco Mihály Kertész, la realizzazione della storia, il titolo che si riferisce agli studios hollywoodiani (tutti dipinti di bianco).
Grazie ai film di Hollywood abbiamo imparato la storia della guerra in Europa e in Giappone. Secondo lui i giovani devono imparare la storia dai film, il cinema è un eccellente scuola, di cui tutti noi dovremmo essere allievi.
-Obayashi parla dell’annuncio della perdita della guerra da parte del Giappone, e degli anni di pace successivi alla guerra. Secondo lui la pace non è dimenticare la guerra ma imparare qualcosa dalla guerra. La sua generazione è la prima ad essere diventata adulta dopo la guerra, per lui è importante passare questo messaggio di pace alle altre generazioni.
Il suo lavoro non è stata la produzione di film commerciali, si considera un regista di film privato, sotterraneo, sperimentale che utilizza la telecamera da 8/16 mm.
Tra gli anni ’70 e la metà degli anni ’80 è venuto quasi ogni anno a Roma a lavorare a Cinecittà, dove ha lavorato con Sophia Loren in uno spot televisivo.
Toho, Nikkatsu e Shochiku in quegli anni non riuscivano più a produrre il film giapponese, perché si erano dimenticati della guerra. Ha ricevuto dalla Toho l’invito a creare qualcosa di giapponese. Anche se gli piacevano i film di quelle compagnie, non aveva intenzione di lavorare con loro, perché molti registi che non lavoravano per loro realizzavano pellicole inerenti alla guerra. Per lui era un ossessione utilizzare le telecamere da 8/16 mm per creare qualcosa di diverso e un messaggio di pace.
Grazie alle tecniche che ha imparato girando il mondo, ha occupato sempre lui il soundstage migliore della Toho.
Non aveva intenzione di fare film commerciali, ma la figlia di undici anni l’ha convinto ad accettare [il progetto in questione diventerà il film cult House, ndr.]. La figlia influenzata dalle pellicole del tempo (era uscito Lo squalo di Spielberg) mentre si sta pettinando davanti allo specchio, dice ‘Se dovesse uscire dallo specchio la mia immagine che vuole mangiarmi, sarebbe un orrore.’ Lui l’ha trovata un’idea eccellente, perché la guerra è proprio mangiarsi.
Ha chiesto alla figlia altre idee, che lei ha fornito: il pianoforte che sembra che le mangi le mani quando suona male. Obayashi spiega che tutti i sette episodi di House sono stati coniati dalla figlia, l’idea della donna che ha perso l’amante durante la guerra è una sua idea. House è una collaborazione tra la generazione che ha vissuto la guerra e quella che non l’ha vissuta.
-Obayashi parla della regola che vigeva a quei tempi alla Toho, solo i propri dipendenti potevano girare un film per loro. Con i romanzi, spettacoli radiofonici Obayashi ha creato l’attesa di House tra il pubblico giapponese. I registi della Toho pensavano che House fosse una scemenza, un progetto senza volere e per questo motivo non hanno voluto dirigerlo. Alla fine il produttore della Toho gli ha chiesto di fare uno strappo alla regola e di girare il film. E’ stata necessaria la creazione della sua casa di produzione.
House è un film realizzato da un regista indipendente per una major, quindi ha provato a fare qualcosa che non era mai stato realizzato prima.
Anche Akira Kurosawa ha lavorato per la Toho, ma visto che faceva solo i film che voleva, è stato mandato via e lui ha creato la propria casa di produzione. Oshima e tutti gli altri grandi registi hanno dovuto lottare contro il sistema del cinema giapponese.
Grazie alle amicizie strette con registi importanti, ha potuto usare il suo metodo mentre lavorava per le major.
Il cinema deve essere libero e di pace.
-Dopo l’uscita di House la critica ha detto ‘Questo non è un film’. Però sono convinto che fra 100 anni questi miei film saranno riconosciuti come dei film. Come la via della pace, ci vuole molto tempo per essere compresi.
-Il regista Akira Kurosawa che considero come se fosse mio padre, dice sempre così ’20/30 idee dei film che si desiderano fare sono sempre presenti nella testa, però quali fra queste e quando verrà realizzata? E’ una cosa che non si può capire da soli. Qualcuno deve indicare dall’alto quale fare e quando’.
Il film è una cosa che durerà per sempre, nasce dai sogni pieni di contraddizioni, ma riesce sempre a trovare una soluzione.
Obayashi parla della sua partecipazione alla parata della mattina, spiega di essere rimasto vittima delle radiazioni di Fukushima.
Roundtable
-conosco il regista Fritz Lang da quando avevo 5/6 anni, inoltre da bambino ero un grande appassionato della saga di Nibelunghi. Di Lang conoscevo solo il nome ma non avevo mai visto le sue opere in Giappone, solo all’estero. Il cinema espressionista tedesco l’ha stupito per le scelte cromatiche e della luce, col bianco e nero, così come l’organizzazione dello spazio.
Sia per me che per molti mangaka, Lang è stato importante per la concezione dello spazio e del colore.
Tutto deve essere considerato cinema, non bisogna basarsi sui temi e sulla lunghezza, per questo credo di avere un unico stile che porto avanti tra cinema e con gli spot televisivi.
L’importante è trasmettere e ritrasmettere un azione che è stata compiuta, per questo tutto è per me film. Il cinema porta la vita, mi bastano due scatti per chiamarlo cinema.
-Il cinema si può trasformare in animazione, perché è legato all’idea di anima, come qualcosa che vive e prende vita. Il cinema e l’animazione sono legati allo stesso concetto, solo che uno è disegnato e l’altro è reale, sempre di movimento si tratta.
Anche io mo si sono occupato di animazione, ho realizzato il film d’animazione Shonen Kenya. Ho pensato che anche i bambini potessero avere delle idee per un film d’animazione, così ho bandito un concorso, dove i bambini hanno spedito le loro creazioni di un minuto. Mamoru Hosoda ha vinto il premio. In quel momento non poteva lavorare appieno perché era ancora uno studente delle superiori. Quando finì gli studi Hosoda riuscì poi a contattarlo, tra i due si è instaurato un forte e profondo legame personale e professionale.
Quando Hosoda ha realizzato La ragazza che saltava nel tempo, decise di omaggiare il maestro con questo film. Credo che Hosoda abbia creato il naturale seguito del mio film. Amo Hosoda come se fosse uno dei miei figli.
Abbiamo chiesto al maestro, cosa lo spinge ad aprire un film con delle scene in bianco e nero, per poi passare al colore repentinamente o gradualmente. Inoltre abbiamo chiesto dell’inserimento di numeri di ballo e dell’utilizzo particolare di alcuni brani di musica classica.
Io amo molto il bianco e nero, lo considero il massimo. Essendo un prodotto scientifico, il mondo del cinema si è trasformato nel tempo, prima era muto e c’era il bianco e nero, poi quello parlato. Si usano diverse tecniche e anche lo schermo ha cambiato formato, quindi bisogna adattarsi di questo mutamento. Ma essendo un amante del bianco e nero e del muto, come se fosse un mio amante lo inserisco sempre nei miei film.
Io credo che ci sia una distinzione da fare quando si parla di musica, tra melodia e ritmo. Per me la melodia non cambia mali, quello che cambia invece è il ritmo. Io sono un grande fan sia di Beethoven che dei Beatles, perché secondo il mio punto di vista il ritmo cambia secondo le epoche storiche e delle differenze culturali ma la melodia in sé rimane praticamente sempre. E questo è il motivo che mi spinge a utilizzare la musica classica in film contemporanei, in film in cui l’utilizzo della musica classica potrebbe risultare originale.
Io credo che quando si guarda un film non solo si ascoltano le musiche a seconda delle immagini, si ascoltino le parole, ma tutto quello che ci viene posto davanti ci fa scaturire in noi determinate sensazioni. Nei film voglio mettere quello che io personalmente sento attraverso i miei sensi, di conseguenza c’è questo utilizzo della musica che rispecchia il mio stato d’animo in quel momento.
Inoltre dentro di noi abbiamo una cosa molto importante, che è la memoria e la memoria la troviamo in tantissime parti che ci compongono dall’infanzia fino all’età che abbiamo, e questo secondo me avviene anche all’interno dei film, dove bisogna mettere il DNA del film. Noi abbiamo un DNA, il film ha un suo DNA, il cinema ha un suo DNA. E nei miei film voglio mettere questo, il passaggio dal muto al bianco e nero, al sonoro fino al contemporaneo, ad esempio all’utilizzo del 3D. Perché per me il cinema è una realtà umana come lo siamo noi che possediamo un DNA, che possediamo quindi una memoria.
Immaginate un film che dura 90 minuti, in quanti minuti vengono proiettate le immagini? 50.
Perché la camera da presa apre e chiude l’obiettivo e aprendo e chiudendo non si vede totalmente. Io penso che in un film di 90 minuti ci siano 50 minuti in cui ci concentriamo sull’ambiente sui vestiti, sull’apparenza. Negli altri 40 minuti è come se avessimo gli occhi chiusi e in quel caso facciamo vedere il film al nostro cuore. E questo è il momento in cui noi riusciamo a cogliere quasi inconsciamente la profondità di un film. Perché se riusciamo a comprendere le sensazioni senza che ci vengano espresse, questo è perché abbiamo questi 40 minuti, supponendo di averne 90 a disposizione, in cui facciamo pensare al cuore e non lo sguardo. Ecco perché noi guardiamo realmente soltanto 50 minuti di film.
Tornando alla domanda di prima, parlando dei colori, se guardiamo il cielo fuori, questo è il cielo di oggi Udine 25 aprile. Parlando del bianco e nero collegato a questo discorso, noi vediamo tutti un cielo blu, tornando al discorso di prima dei 50/40 minuti, lo guardiamo per 50 minuti poi chiudiamo gli occhi per 40 minuti però dentro di noi è rimasta scritta l’immagine di questo ricordo del cielo azzurro. La stessa cosa la si fa con i film in bianco e nero. Se noi guardiamo un film in bianco e nero, il cielo non è azzurro però noi in base a un ricordo del passato, un ricordo collettivo che tutti noi proviamo, sapiamo che quel cielo è azzurro perché ci rimanda a un esperienza che abbiamo vissuto quindi, è un’esperienza molto catartica quella del cinema in bianco e nero perché ci fa scavare più a fondo nelle emozioni perché non ce le pone davanti ma ci costringe a trovarle in noi stessi e questa prospettiva è quello che mi piace del film in bianco e nero. E’ questo il motivo per cui inserisco il più possibile scene in bianco e nero all’interno dei miei film.
-Onomichi è la mia città natale ma anche dove si svolgono parte delle vicende di Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, ed essendo lui uno dei maestri del cinema mondiale, credo che Onomichi possa essere considerata anche la città natale del cinema. Ozu è famoso per aver scelto Onomichi come il luogo più giapponese, più tranquillo, per ambientare il villaggio natale dei due protagonisti.
Ho ripreso Onomichi non solo per onorare Ozu, ma anche per il mio amore per questa città.
Utilizzo spesso degli attori giovani perché rappresentano il futuro. Credo che il cinema sia qualcosa proiettato verso il futuro e io mi trovo a metà tra il passato e il futuro.
La consegna del premio alla carriera:
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