I premi di un festival deludono sempre e comunque i critici e spesso anche molti dei giurati stessi. Tante teste da mettere d’accordo, a volte il compromesso finisce con il premiare seconde e terze scelte su cui concordano tutti invece che le prime su cui concorda solo qualcuno. Eppure il lavoro svolto dalla giuria presieduta da George Miller, l’eccezionale regista di Mad Max: Fury Road risulta incomprensibile a tutti, non solo a noi. Dal Los Angeles Times a Les Inrocks, passando per Guardian e molti altri ancora per arrivare a Paris Match è il peggiore palmarès della storia del festival. È davvero così?
Facciamo un passo indietro e partiamo dai premi stessi.
Palma d’oro a I, Daniel Blake di Ken Loach (qui la recensione), Grand Prix della Giura a Juste la fin du Monde di Xavier Dolan (qui la recensione), Premio alla messa in scena (regia) ad ex-aequo a Cristian Mungiu per Bacalaureat e Olivier Assayas per Personal Shopper (qui la recensione), migliore attrice a Jaclyn Jose per Ma’Rosa, migliore attore Shahab Hosseini per The Salesman (che ha vinto anche la sceneggiatura), Premio della giuria a American Honey di Andrea Arnold.
Partiamo dalla Palma d’oro. Il cinema di Ken Loach e del suo sceneggiatore Paul Laverty è lo stesso di sempre. Necessariamente politico. Si ha bisogno delle sue storie. Quella di I, Daniel Blake era ed è necessaria. Si parla di un uomo che si scontra con le modalità di accesso al welfare inglese, tra regole assurde e ottusità ingiustificabile. Premiarlo significa premiare la sua denuncia (giusta e puntuale), ma di certo non uno stile estetico o narrativo che possa ispirare il cinema del futuro. È un film minore di Loach, onesto e pulito, ma limitato nelle intenzioni, una metafora molto semplice con un finale strappalacrime piuttosto furbetto. C’era di meglio o comunque di più coraggioso in concorso. E Loach aveva già vinto con Il vento che accarezza l’erba più di 10 anni fa. Insomma, neanche si può parlare di premio di consolazione.
Il Grand Prix della Giuria a Juste la fin du Monde di Xavier Dolan è il più incomprensibile dei premi. Sia perché è vero che ogni spettatore è un critico, ma su questo film il 90% dei critici si è schierato come “per carità” (noi compresi), sia perché – anche a voler sostenere Dolan – è indubbio che si parli di un passo indietro dopo il suo (bel) Mommy. Speriamo non serva da stimolo al ventisettenne enfant prodige del cinema canadese per ripetere ancora una volta la stessa storia con una piccola variante.
Avete presente quando, dopo qualche battuta caduta nel vuoto, siete tentati di dire qualcosa di banale su cui però tutti concorderanno, appositamente per riconquistare un po’ di fiducia in voi stessi. Ecco, parlare male di The Last Face di Sean Penn e di Personal Shopper di Olivier Assayas è stato il jolly sicuro da tirare fuori durante le situazioni conviviali del festival. Siamo scampati da un premio a Sean Penn, ma non da Olivier Assayas e ai suoi improbabili fantasmi. Va bene che un premio al cinema francese era quasi obbligato, ma la regia di Personal Shopper è quella che ci regala perle di involontaria comicità come il bicchiere che cade da solo in cucina e il fantasma che apre le porte a sensore automatico. Anche no. Per fortuna che, ad ex-aequo, sia stato premiato anche Bacalaureat di Mungiu, il migliore tra i film premiati. Poteva ambire a di più.
Non ci pronunciamo sulle interpretazioni. Non abbiamo visto Ma’Rosa e non possiamo dire nulla della sua attrice Jaclyn Jose, mentre Shahab Hosseini per The Salesman è un premio legittimo come qualsiasi altro sia stato dato al film di Farhadi (che ha preso anche la sceneggiatura). Di certo il suo era un film politico tanto quanto, se non di più, di quello di Loach. Una pellicola che per aggirare la censura iraniana, uomini e donne non si possono mai toccare in un film, fa della limitazione il punto di partenza di un thriller. Eccezionale.
Gli assenti. È stato un festival sorprendente. I parziali o totali fallimenti dei grandi (Almòdovar, Dardenne, Jarmusch, Penn e a nostro avviso anche Loach) sono stati compensati da diverse sorprese, eppure i premi principali sono andati a chi non poteva vantare né nome né un film veramente riuscito. Toni Erdmann di Maren Ade, Acquarium di Filho Kleber Mendonça e Sierraneva di Cristi Puiu meritavano, secondo quasi tutti i critici presenti a Cannes, almeno una menzione, se non i gradini più alti. Senza dimenticare quel Nicolas Winding Refn che con il suo The Neon Demon ha diviso paradossalmente come quel Miller che l’anno scorso sulla Croisette portò un film esteticamente affascinante, ancora più che per il contenuto, come Mad Max: Fury Road. Possibile che l’unico regista che quest’anno ha provato a fare qualcosa di nuovo non sia stato premiato per quel coraggio mancato a tanti suoi colleghi?
QUI L’ELENCO COMPLETO DEI VINCITORI
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