Il cinema e il glamour di Los Angeles, la vivacità (spesso ai limiti della legalità) e il malinconico, ma irresistibile fascino di New York: il primo film girato in digitale da Woody Allen è una storia di opposti che si attraggono. Siamo negli anni ‘30. Da una parte c’è Booby (Jesse Eisenberg), giovane che cerca di capire quale sia la sua strada, ma che, almeno all’inizio, ritiene che non possa essere nella Grande Mela, lì dove vive ancora con la famiglia. Dall’altra c’è Vonnie (Kirsten Stewart) avvenente segretaria di un agente di star di Hollywood con cui ha una relazione segreta (lui è sposato). I due si incontrano a Los Angeles. Il trait d’union è Phil, zio del primo e capo/amante della seconda. Tra di loro scoppia la scintilla, ma come gestire il tutto?
Dal alcuni anni Woody Allen alterna puntualmente il dramma alla commedia. Certo, anche quando si tratta di dramma, è un dramma “alla Allen”, si sorride, ma c’è sempre qualche elemento più forte che richiama alla morte. E così, se alla prima categoria appartengono To Rome with Love (2012) e Magic in the Moonlight (2014), nell’altra vanno catalogati Blue Jasmine (2013) e Irrational Man (2015). Café Society fa parte del primo gruppo. Si parla di amore, di quello che nasce grazie ad un colpo di fulmine, ma non per questo è tanto forte da spezzare qualsiasi ostacolo gli si frapponga. Come è suo solito Allen non ama tirare a lungo le svolte narrative. Le prepara qualche scena prima con un semplice dettaglio di regia o battuta e ce le presenta poco dopo costringendo la stioria a cercare subito un nuovo equilibrio. I dialoghi sono incalzanti, la musica jazz in sottofondo un ottimo espediente per accelerare o rallentare il ritmo della vicenda. Quella di Café Society non è particolarmente avvincente. Si potrebbe definire un film minore di Allen. È interessante il dualismo tra le due metropoli statunitensi più celebrate al mondo, un confronto sostenuto sia attraverso le immagini dei luoghi che dalla rappresentazione dei diversi stile di vita. La storia d’amore però è un déjà-vu a cui manca la solita verve del genio di Brooklyn. Si rivaluta però per il finale, scritto e girato con grande maestria, un epilogo che molti troveranno simile a qualcosa di vissuto in prima persona. “Basta che funzioni” avrebbe detto l’Allen di dieci anni fa. Oggi non è più così. Gli anni scorrono via come la vita. E percorrono sentieri su cui non sono consentite inversioni ad U.
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Nota a margine per gli attori: Eisenberg ha una determinazione, negli occhi, nella voce, che ne fanno una perfetta sintesi di molti dei personaggi ebrei creati in passato da Allen (assieme realizzarono già To Rome with Love) e che sarebbe bello vedere ancora, alle prese con altre vicende. La Stewart dimostra una fragilità e fascino poche volte visti in passato e che si spera non si spengano al prossimo film. Carrell (che ha rimpiazzato all’ultimo Bruce Willis, impegnato altrove) è come al solito una garanzia a cui però, forse, manca qualche battuta per essere “completo”. Presentato a Cannes come film d’apertura (tanti gli applausi), Café Society non spiccherà mai all’interno della filmografia di Allen, ma come tanti suoi altri lavori, in confronto con “la concorrenza” vale sicuramente una sua visione al cinema.
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