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Zero Days – Il documentario sul virus Stuxnet di Alex Gibney, la recensione

Pubblicato il 18 febbraio 2016 di Andrea D'Addio

Alex Gibney è il più importante documentarista contemporaneo sia per prolificità che per importanza dei suoi progetti. L’unico Oscar per ora è arrivato per Taxi to the Dark Side (2007), ma da allora ha realizzato altri 15 film, toccando temi di economia (Freaknomics, 2010) sport (The Amstrong Lie, 2013), religione (Going Clear: Scientology e la prigione della fede, 2015) e tecnologia (Steve Jobs: The Man in the Machine, 2015). Con Zero Days il cineasta newyorkese (figlio del giornalisa Frank Gibney, a lungo corrispondente del Time) torna a parlare di sicurezza digitale, argomento già affrontato nel 2013 We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks (2013).

Al centro di tutto vi è Stuxnet, un virus scoperto nel 2010 dopo aver infettato diversi computer in giro per il mondo. I “Days” citati nel titolo sono i giorni a disposizione di uno sviluppatore per riparare l’attacco di un cracker una volta trovata la falla di un programma. Nel caso di Suxnet quel numero è “zero”. Chi l’ha messo a punto conosceva perfettamente e le cui origini sono state a lungo oggetto di indagine vista la sua eccezionale complessità. La sua provenienza ormai è nota: a realizzarlo furono gli Stati Uniti e Israele. Loro obiettivo, ma fallirono in questo, o meglio, le conseguenze del loro attacco andarono ben oltre a quanto inizialmente pianificato, finendo con il colpire anche i sistemi informatici di molte aziende occidentali, era l’Iran. Perché? Ci fu un contrattacco? Cosa significa parlare dei guerra cibernetica oggigiorno? Ci sono limiti? E, se sì, chi li stabilisce?

Per quanto inizialmente particolarmente impegnativo da seguire se non si è pratici del linguaggio informatico, Zero Days riesce gradualmente a chiarire l’intera vicenda e a trasformarsi in un vero e proprio thriller, con tanto di indagine e continuo capovolgimento di ruoli buoni e cattivi. La cronaca di un fatto passato e, ormai, risolto, si trasforma in un pretesto per parlare di una nuova topologia di conflitto a cui mancano ancora regole di ingaggio internazionalmente condivise. Il racconto è avvincente. A difettare sono però le immagini. Il film è completamente retto dalle interviste (con l’ironico ex direttore dell’NSA e della CIA, Michael Hayden protagonista), il resto sono ricostruzioni grafiche e generico materiale d’archivio. Si ha spesso la sensazione che lo si potrebbe ascoltare, invece che vedere. Il cinema, in questo caso (il film è stato presentato alla Berlinale), serve più come megafono per una storia che è bene che venga resa nota, che come medium utilizzato per le sue specificità tecniche. Dato l’argomento sarebbe stato difficile fare diversamente. Forse l’impossibilità di rendere la guerra cibernetica spettacolare è anche la ragione principale per cui non se ne parla abbastanza.

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