Cinema Festival Interviste

National Bird – Intervista esclusiva alla regista Sonia Kennebeck | Berlinale 2016

Pubblicato il 17 febbraio 2016 di Andrea D'Addio

La guerra con i droni, dove per drone si intende un velivolo a controllo remoto risale al 1949, quando l’eserciti austro-ungarico utilizzò alcuni palloni aerostatici per risolvere l’assedio Venezia evitando di diventare bersaglio dei cannoni nemici. Da allora il progresso dell tecnologia ha cambiato completamente l’efficacia di questa azione militare, ma non il concetto: attaccare a distanza senza avere diretto controllo – se non attraverso dei monitor – di dove e di chi si colpirà. Afghanistan e Iraq sono i conflitti più recenti in cui le truppe americane hanno utilizzato i droni. Non sempre lo hanno fatto bene. Anzi, come raccontano i tre veterani “pentiti” in National Bird, spesso con danni collaterali ben più gravi dell’importanza dei successi ottenuti.

A parlarcene a Berlino, durante il festival del cinema, è la regista del film, Sonia Kennebeck, che per realizzare il proprio progetto è riuscita a coinvolgere, nelle vesti di co-produttore, anche Wim Wenders:

«Ho provato a prendere un appuntamento senza crederci troppo. E invece mi ha risposto e qualche settimana accolto nel suo ufficio. Ha visto il montaggio di alcune delle prime scene . Ha spento e mi ha detto: “Qualsiasi cosa ti servirà io sono qui”. Ha avuto un approccio molto pratico alla questione. La sua prima preoccupazione fu di farmi affiancare da uno studio legale che potessi consultare in qualsiasi momento sia per capire cosa potessi dire e cosa no che per i tre intervistati».

Ad inizio pellicola una didascalia premette che nessuno dei veterani sta condividendo informazioni protette dal segreto di stato.

«Non volevo mettere in difficoltà i miei testimoni. Fuori dal montaggio finale ci sono dialoghi che avrebbero potuto causargli problemi. Daniel, uno dei tre veterani, è tuttora sotto inchiesta e non sa bene se andrà a processo o meno. Quando ho finito il film il mio avvocato mi ha detto che probabilmente avrei ricevuto una visita a casa da parte dell’Nsa. Al momento non è ancora accaduto, ma chissà».

National Bird non ha ancora un’uscita italiana, mentre ne è prevista una tedesca il prossimo anno.

«Finora non abbiamo fatto pubblicità a questo film, non c’è neanche la scheda su Imdb. Volevamo lavorare tranquillamente, senza rischiare pressioni. Ci abbiamo messo tre anni. Partiamo dalla Berlinale, ma l’obiettivo è farlo vedere il più possibile in ogni parte del mondo»

Qual è la procedura militare che pensa dovrebbe essere cambiata prima delle altre?

Il fatto che i cosiddetti danni collaterali, ovvero le morti dei civili che, per loro sfortuna, si trovavano vicino ad un obiettivo, non vengano mai calcolati correttamente. E questo perché, il fatto stesso che si trovassero vicini a qualcuno o a qualcosa che si ritiene pericoloso, rientra spesso nella definizione di “colpevole per associazione”. Insomma, tutto ha la possibilità di diventare colpevole per associazione, e difficilmente si finisce con il parlare delle vittime innocenti.

Paura di trasformare i suo i tre “pentiti” in novelli Snowden?

Molta. Ed è la ragione per cui tutti sono sempre stati molto attenti sul cosa dire e cosa no. Ci sono però informazioni, non top-secret, che comunque è come se lo fossero, non sono conosciute abbastanza.

Cosa l’ha sconvolta di più girando questo film?

Ho deciso di realizzare questa pellicola partendo dalla domanda: quando è giustificato l’utilizzo dei droni? Nel 2010 ben 23 civili furono uccisi dall’attacco di un drone manovrato a distanza da truppe statunitensi. Erano uomini, donne e bambini in preghiera. Il messaggio di scuse americano – trasmesso sulla rete nazionale afghana – non è mai stato reso pubblico in inglese, sempre e solo doppiato. Negli Stati Uniti non se ne parlò quasi per nulla. Tra le vittime non c’era nessun obiettivo sensibile. Fu un errore. Siamo andati a trovare i superstiti di quella tragedia. Sono state tutte gentilissime, la cosa assurda è che non hanno rabbia, ci ringraziavano per la possibilità che gli davamo di raccontare la loro verità.

La maggiore soddisfazione?

Che durante le riprese, grazie all’impegno di Heather, una dei tre veterani, il disturbo post traumatico da guerra è diagnosticabile anche a chi ha combattuto attraverso i droni. Ciò che vedono e vivono crea stress e conseguenze che uno si porta dietro ovunque, anche se non ha imbracciato direttamente un fucile

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