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Indignation – La recensione dal Festival di Berlino

Pubblicato il 16 febbraio 2016 di Andrea D'Addio

C’è un dialogo in Indignation che da sola vale la visione del film. Marcus Messner, la giovane matricola di un college nell’Ohio del 1955 spiega al suo rettore perché abbia deciso di cambiare alloggio e allontanarsi dalla camera condivisa con gli altri due compagni universitari, entrambi ebrei. Il decano non crede alle sue parole, pensa ci siano altre ragioni.

Non lo dice direttamente, ma lo insinua con domande a prima vista slegate tra loro, ma che il giovane capisce subito dove vogliano andare a parare. E così le anticipa, senza però dargli risposta, fermo nella convinzione che i suoi comportamenti devono seguire una morale che dovrebbe garantirgli la possibilità di non volere rendere tutto noto, anche quando la condivisione di certe informazioni non gli costerebbe nulla. In questo batti e ribatti, magistralmente sostenuto dalle interpretazioni di Logan Lerman e Tracy Letts, c’è l’essenza stessa della storia di Indignation, film di debutto James Schamus, già produttore e sceneggiatore in passato, spesso in collaborazione con Ang Lee. La pellicola è tratta da uno dei più bei romanzi di Philip Roth. Vi ricorrono tutti i temi cari allo scrittore americano: l’ebraismo, la frustrazione sessuale, l’educazione giovanile ed accademica e l’idealismo. Il tutto sullo sfondo di una guerra, quella in Corea, che a tratti sembra costituire solo un contesto storico, ma che sia nel libro che film è posta proprio all’inizio della trama. È il suo collegamento con quanto accadrà a Marcus Messner che giustifica il titolo: Indignazione. Per cosa? Per come va la vita. A volte – come dirà il padre del protagonista – anche il più insignificante errore può avere conseguenze inimmaginabili. E così, per quanto Marcus sia un ragazzo modello, retto, onesto e destinato – come gli dice il suo stesso rettore – ad un roseo futuro da avvocato, non è detto che questo basti.

Portare sul grande schermo un libro di Roth non è mai semplice. Trasformare in dialoghi ed immagini flussi di pensieri spesso in prima persona, in molti casi contraddittori tra di loro (è proprio la tortuosità del suo pensiero a renderne la lettura una delle più avvincenti da leggere nella letteratura contemporanea) necessita di un’opera di riscrittura non banale né scontata. Solo La macchia umana di Robert Benton (2003) è riuscita finora, e solo parzialmente, a non perdere molto del fascino della fonte originale. James Schamus fa un passo in più, ma senza eccellere. È credibile l’ambientazione anni ‘50, funzionano i personaggi e il continuo senso di inadeguatezza/superiorità del protagonista rispetto a tutto ciò che gli è intorno (l’università, la famiglia, l’epoca stessa) che trova nell’amore e nel sesso l’unica “tregua” da un senso del dovere troppo sviluppato, ma ci si sofferma troppo sulla storia d’amore, tralasciando tutto quel “restante” che rende la storia di Indignation degna di essere raccontata e portata con sé stessi per sempre, come il libro.

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