Recensioni

Minority Report, la recensione dell’episodio pilota

Pubblicato il 23 settembre 2015 di Lorenzo Pedrazzi

Sulla Fox ha debuttato Minority Report, la serie tv tratta dall’omonimo blockbuster di Steven Spielberg, basato a sua volta sul racconto Rapporto di minoranza del geniale Philip K. Dick. L’episodio pilota è stato scritto da Max Borenstein, e si collega direttamente alla trama del film…

Attenzione: l’articolo contiene SPOILER.

Washington, 2065. Sono trascorsi dieci anni dallo smantellamento della Precrimine, ma Dash (Stark Sands) è ancora tormentato dalle visioni di orribili omicidi, e torna in città per cercare di fermarli; purtroppo, però, le sue percezioni sono frammentarie – ha bisogno del gemello Arthur (Nick Zano) per completarle – e non riesce mai a intervenire in tempo. La sorella maggiore Agatha (Laura Regan) cerca di convincerlo a tornare a casa, nell’isola dove sono stati confinati dopo la chiusura del dipartimento, ma lui non vuole saperne.
Dash vede la morte di un’infermiera, lanciata da un grattacielo durante una colluttazione, ma anche in questo caso non riesce a evitare l’omicidio. Sulla scena del delitto interviene la detective Lara Vega (Meagan Good), e Dash la segue per consegnarle l’identikit dell’assassino, da lui disegnato sul suo quaderno. Fra i due nasce una collaborazione improvvisata che li porta a scoprire un piano per uccidere la moglie del candidato sindaco Van Eyck (nonché ex vicedirettore della Precrimine), presa di mira da un uomo, Mason Rutledge, che fu arrestato proprio da Van Eyck per uxoricidio (sventato dai Precog). La moglie morì di dolore mentre il marito era in stasi, e ora lui si vuole vendicare. Con l’aiuto di Wally (Daniel London), ovvero l’ex custode dei Precog, Lara e Dash riescono a fermare Rutledge, il quale viene spinto nel vuoto da Dash per evitare che accoltelli la detective.
Il caso è chiuso, ma intanto Agatha chiede ad Arthur di indagare su Lara, preoccupata per una visione che la tormenta di continuo: lei e i suoi fratelli che vengono nuovamente catturati dalla Precrimine…

Procedural Report
Rapporto di minoranza, bel racconto di Philip K. Dick pubblicato nel 1956 su Fantastic Universe, ha attraversato un processo di normalizzazione che lo ha trasformato prima in un blockbuster con mire autoriali, e poi in una serie tv di natura estremamente convenzionale, ancorata ai vetusti codici dei procedural. Se il film di Steven Spielberg tentava perlomeno di avvicinare il dilemma etico alla base della storia (offrendo al contempo un’interessante esperienza visiva), lo show della Fox non ci prova nemmeno, anzi, lo sceneggiatore Max Borenstein affronta il soggetto con piglio reazionario: le facoltà precognitive di Dash servono solo per acciuffare i “cattivi”, che riceveranno la giusta punizione secondo una logica manichea. Così, Minority Report si presenta come una serie d’impostazione verticale che racchiude una lieve trama orizzontale, troppo occupata a inseguire il solito “assassino della settimana” per riflettere sui limiti del libero arbitrio e sulla legittimità del “sistema”.

Questo processo di banalizzazione trova compimento negli stessi protagonisti, una coppia che pare costruita sul modello di Sleepy Hollow (guarda caso, altro show della Fox), con una detective tosta e un partner estraniato, ovviamente gravati entrambi da un passato difficile. La narrazione asciutta e spietata di Philip Dick è lontanissima, ma anche l’ambiguità del film non lascia tracce sulla serie tv, e la ragione è molto semplice: come in Person of Interest, l’eroina di turno fa un utilizzo esclusivamente clandestino della sua preziosa risorsa, quindi si perde il vero nucleo della vicenda, ovvero l’istituzionalizzazione di un metodo che arresta cittadini innocenti sulla base di una percezione extrasensoriale (dunque slegata da indizi concreti). Non ci sono dubbi sulla colpevolezza dei futuri carnefici, poiché Borenstein – che guarda con sospetto anche ai vecchi detenuti della Precrimine – li vede solo come “mostri” da neutralizzare, senza interrogarsi sull’etica di questo procedimento e sulle restrizioni della libertà individuale. Privo di qualsiasi inquietudine, il futuro di Minority Report è un parco giochi dove l’invadenza della tecnologia è benaccetta, e la sua diffusione su vasta scala è ritenuta necessaria per la sicurezza dei cittadini.

L’intreccio investigativo, di per sé, risulta un po’ farraginoso, ma il montaggio eccessivamente sincopato e la recitazione schizofrenica sembrano voler accelerare il ritmo della storia in modo grottesco, con sequenze che talvolta rasentano il ridicolo. La confezione tecnica è abbastanza buona, soprattutto gli effetti in CGI, eppure la Washington del 2065 manca di personalità: i gadget futuristici servono solo per fare colore, o per suscitare qualche tenue effetto comico. I risvolti più buffi, per quanto prevedibili, consistono però nei riferimenti alla nostra quotidianità, trattata alla stregua di archeologia tecnologica o culturale: si cita Iggy Azalea come se fosse un vecchio classico della musica pop, mentre I Simpson sono giunti alla 75ma stagione.

Al di là di queste piccole boutade, Minority Report ha davvero ben poco da dire, e rischia di smarrirsi nella mediocrità dei peggiori procedural odierni, nonostante possa vantare ben più nobili origini. Gli accenni alla trama orizzontale non sono molto incoraggianti, e comunque paiono secondari rispetto alle trame verticali.

La citazione: «Quando avevo la tua età, c’era una cosa chiamata Tinder. È così che ho incontrato tuo padre.»

Ho apprezzato: i buoni effetti visivi (in relazione al budget); le boutade sulla nostra contemporaneità.

Non ho apprezzato: il piglio vagamente reazionario; l’assenza di spirito critico; il montaggio eccessivamente sincopato; la recitazione quasi grottesca; la banalizzazione delle tematiche.

Potete scoprire, commentare e votare tutti gli episodi di Minority Report sul nostro Episode39 a questo LINK.