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Man Down – La recensione del film di Dito Montiel #Venezia72

Pubblicato il 06 settembre 2015 di Lorenzo Pedrazzi

Il regista americano Dito Montiel (Guida per riconoscere i tuoi santi, Fighting) partecipa alla sezione Orizzonti con Man Down, film insolito e spiazzante che nasconde la sua vera natura fino all’ultimo atto, ribaltando completamente la prospettiva sulla storia.

Ci troviamo in un contesto post-apocalittico dove le città sono state devastate da una misteriosa guerra, e Gabriel Drummer (Shia LaBeouf) vaga per queste lande desolate alla ricerca di sua moglie Natalie (Kate Mara) e di suo figlio Jonathan (Charlie Shotwell), con la sola compagnia del suo vecchio amico Devin (Jai Courtney), che ha servito insieme a lui nel corpo dei Marine. Un flashback, però, ci rivela il passato di Gabriel, che fu interrogato a lungo dal Capitano Peyton (Gary Oldman) per fare luce su un “incidente” occorso durante una missione in Afghanistan, mettendo a nudo tutta la verità sul conto del soldato.

Com’è già accaduto in altre pellicole (basti pensare a Franklyn di Gerald McMorrow), la fantascienza è solo un pretesto per mascherare la realtà, un velo di Maya che nasconde un intreccio di orrore, dolore, panico e frustrazione. Man Down è costruito attraverso una sovrapposizone di flashback che procedono a ritroso, abbastanza goffi nella loro mancanza di ordine e struttura, dove la verbosità delle scene dialogate prevale nettamente sull’azione. Il film di Montiel, in effetti, non è ciò che sembra, e la CGI posticcia degli scenari post-apocalittici denuncia (involontariamente?) la natura fittizia di quella rappresentazione, come uno spettacolo di burattini in cui si vedono i fili. Per almeno tre quarti della sua durata, Man Down suscita un rifiuto quasi viscerale, dovuto alle lacune narrative della storia, che sembra non avere alcun “senso”.

Il percorso di Gabriel trova una giustificazione solo nell’ultimo atto, grazie un colpo di scena finale abbastanza imprevisto (seppure non nuovissimo) che salva parzialmente il film. Tralasciando i dettagli, Montiel confeziona una parabola sul disturbo da stress post-traumatico dei reduci di guerra, spesso lasciati soli dopo il ritorno in patria; la fantascienza, in tal senso, ha una funzione allegorica, non letterale, e l’epilogo riesce a pizzicare le corde della commozione anche in virtù di alcuni espedienti un po’ ricattatori (il montaggio reitera alcune scene “chiave” al punto giusto, stabilendo una connessione emotiva tra passato e presente).

Peccato che, per il resto, la costruzione di Man Down sia eccessivamente fragile, e che la storia si affidi troppo al suddetto colpo di scena per acquisire una sua coerenza interna. Le incertezze di natura tecnica, inoltre, non sono certo d’aiuto: la fotografia è scialba, e l’atmosfera che ne consegue è sin troppo anonima per catturare un minimo d’interesse.

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