Ancora una volta, la provincia americana è un coacervo di white trash dove le istituzioni accettano il governo di una legge non scritta, atavica e brutale: a dominare è sempre il più forte, libero di agire nell’illegalità grazie a un regno di paura e corruzione. Le regole del vivere civile si perdono tra le grandi città e le comunità rurali o montane, immerse in una natura selvaggia che suscita pulsioni ancestrali e istinti violenti, com’è stato raccontato benissimo da Winter’s Bone, Mud, True Detective e altri prodotti che sondano il ventre nascosto dell’America.
Purtroppo, Go with Me non si avvicina minimamente ai suddetti livelli qualitativi, e la livida ambientazione montuosa resta un suggestivo panorama di fondo: siamo probabilmente nello Stato di Washington – anche se il film è stato girato nel British Columbia – e Lillian (Julia Stiles) ottiene l’aiuto dell’anziano Les (Anthony Hopkins) e del suo giovane amico Nate (Alexander Ludwig) per fronteggiare il sadico Blackway (Ray Liotta), ex poliziotto che gestisce un giro di droga, prostituzione e appalti illegali senza che l’impotente sceriffo faccia nulla. Blackway ha già tentato di violentare Lillian, e poi ha ucciso la sua gatta. Insieme, i tre dovranno vedersela con tutta la gang del criminale, circondati dalle gelide foreste del confine canadese.
Alla base del film c’è l’omonimo romanzo di Castle Freeman Jr., ma il regista Daniel Alfredson ne ricava uno scialbo thriller che sbaglia totalmente la costruzione dei personaggi, incapace di caratterizzarli attraverso i traumi del passato: gli accenni alla figlia suicida di Les sono confusi e lacunosi, mentre i suoi trascorsi con Blackway appaiono ridicoli e molto forzati. Se la regia è anonima, i veri problemi sorgono invece nella sceneggiatura di Joe Gangemi e Gregory Jacobs, che piazza un paio di scene d’azione puramente gratuite (nonché dirette senza idee) e struttura il film in modo meccanico e ripetitivo, obbligando i protagonisti a spostarsi da un luogo all’altro senza una vera ragione, a parte la necessità di colmare i vuoti del racconto.
Si sente la mancanza di un solido contesto sociale che modelli la psicologia dei personaggi, attribuendo all’ambientazione un valore più profondo rispetto alla semplice atmosfera (che, presa di per sé, risulta abbastanza efficace). Inoltre, le carenze di Go with Me si riscontrano proprio negli elementi basilari del thriller: non c’è mai tensione, nemmeno nel confronto finale, penalizzato da un climax frettoloso che sfocia in un epilogo alquanto disorganico. Le prove svogliate di Anthony Hopkins e Ray Liotta, infine, non aiutano a rinvigorire la credibilità dei rispettivi personaggi, contrapposti in un dualismo di cui non si conoscono le vere motivazioni.