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Qualunque sia l’esigenza che ci spinge a compiere imprese sovrumane, in Everest resta un segreto inconfessabile: il regista Baltasar Kormakur narra la famigerata spedizione del 1996 (dove trovarono la morte otto alpinisti, sollevando il dibattuto sullo sfruttamento commerciale della montagna più alta del mondo) con la precisione scolastica di chi vuole rendere un servizio alla memoria delle vittime, evidenziando la profonda umanità dei loro errori.
Nonostante Jason Clarke (il capo spedizione Rob Hall) assuma un ruolo leggermente più centrale, Kormakur predilige l’approccio corale, e ogni personaggio è caratterizzato da una storia privata che, tra conflitti familiari e ambizioni personali, lo spinge sempre più in alto fino alla vetta fatale. È il dramma dell’empatia, più che dell’incompetenza: Rob Hall, animato da un grande spirito di condivisione, vorrebbe donare a tutti la gioia di quell’impresa spettacolare, soprattutto a chi lo fa in nome del proprio buon cuore, come il Doug Hansen di John Hawkes. Sul piano cinematografico, ne risulta un film che costruisce il dramma in progressione, cementando i rapporti fra i protagonisti per poi scatenare la tragedia, quasi una punizione divina di fronte alla hybris degli uomini.
In effetti, la montagna si trasfigura in un’entità mitologica, come un Leviatano da catturare o una terra favolosa da colonizzare. Everest non si addentra nelle motivazioni spirituali o filosofiche degli scalatori (in tal senso non è affatto didascalico), e la soluzione si rivela quella più basilare: bisogna conquistarne la vetta semplicemente «because it’s there», perché la sua stessa esistenza giustifica l’impresa. Kormakur riesce a rendere percepibile l’ansia di trovarsi in una terra ostile, focalizzando lo sguardo sulla precarietà delle condizioni meteorologiche e sulla suspense della minaccia imminente; inoltre, il regista valorizza i paesaggi con un impiego discreto della CGI, mai invasiva rispetto alle immagini “dal vero” (comunque preponderanti: gran parte delle riprese si è svolta sulle Dolomiti). Quello che funziona meno bene è il versante emotivo, che fatica a strappare un brivido di commozione persino nelle scene più melodrammatiche, dove la consapevolezza della fine è ormai palese.
Resta un film girato con mestiere, forse un po’ troppo convenzionale ma arricchito da valide interpretazioni, soprattutto per merito di Jason Clarke, Emily Watson e Jake Gyllenhaal.
Nel cast del film, che arriverà nelle nostre sale il 24 settembre 2015, troviamoJake Gyllenhaal, Robin Wright, Sam Worthington, Emily Watson, Jason Clarke, Keira Knightley e Josh Brolin. Dietro la macchina da presa c’è il regista islandese Baltasar Kormákur (Cani sciolti). QUItrovate la pagina facebook ufficiale italiana.
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