Esistono molti cliché nella fantascienza distopica, e Equals li sintetizza tutti: siamo in un futuro imprecisato, dopo una Grande Guerra che ha distrutto buona parte del vecchio mondo, ma sulle sue macerie è sorto un mondo nuovo in cui l’umanità ha saputo liberarsi dal giogo dei sentimenti, delle emozioni e degli impulsi primari. Gli “Uguali” vivono in una società ordinata e asettica dove ognuno svolge il proprio incarico, i rapporti umani sono banditi e l’inseminazione artificiale garantisce il propagarsi della specie. Esiste però anche un virus noto come Switched On Syndrome (SOS), capace di ristabilire la programmazione genetica naturale e riattivare i vecchi “difetti” del genere umano: rabbia e amore, ansia e paura, sbalzi umorali e tendenze suicide, odio ed empatia si riversano sui malcapitati cittadini, rendendoli inabili alla vita nel Collettivo. Chi raggiunge l’ultimo stadio è confinato nel Covo, sottoposto a torture inibitorie e indotto a togliersi la vita. Silas, un giovane illustratore, viene contagiato dal virus e comincia a provare attrazione per una collega, Nia, che potrebbe soffrire del medesimo disturbo…
Drake Doremus (Like Crazy) torna alla regia con una parabola sci-fi carica di ambizioni sociologiche, ma frenata da troppi elementi derivativi che ne fanno una sorta di bigino distopico. Il retaggio cine-letterario cui appartiene è cristallino: Equals ha un grosso debito con 1984 e con i suoi discepoli cinematografici, soprattutto THX 1138, da cui ricava sia il livellamento estetico (ambienti e abiti funzionali, bianchissimi, anonimi) sia l’utopia della fuga verso una terra selvaggia, emblema del ritorno a uno stato di natura che spezza le catene della civiltà. Si tratta di una fantascienza meditativa e antispettacolare, concentrata sull’intimità dei personaggi più che sull’azione, ma la sua firma indie appare pretestuosa e un po’ stucchevole: partendo dall’idea di un regime totalitario razionalista, Doremus tende a ripetere schemi narrativi vetusti che riecheggiano le soluzioni di Equilibrium, Codice 46 e persino uno young adult come The Giver, ma costruendo il dramma romantico in modo più artificioso, nonostante la scelta dei protagonisti sia sensata.
Kristen Stewart e Nicholas Hoult, giustamente rigidi ed eterei, sono efficaci nel riprodurre lo spaesamento dei loro caratteri, in particolare quando cominciano a provare sentimenti e impulsi sessuali che non sanno spiegare. Il regista sfrutta la stilizzazione visiva (silhouette che si muovono sullo sfondo di una dominante cromatica variabile) per aumentare l’intensità dei loro incontri e la difficoltà del primo contatto, con effetti discreti grazie alle musiche in crescendo di Apparat. Purtroppo, però, il giochino si reitera fin troppo spesso e smarrisce la sua forza iniziale, diventando un leitmotiv autocompiaciuto: Doremus è chiaramente più interessato a soddisfare la “pancia” del pubblico, piuttosto che l’intelletto.
Il lavoro sulle scenografie, d’altra parte, è molto valido, poiché rielabora scenari preesistenti per valorizzarne l’aspetto futuristico, trasmettendo l’impressione di una società algida, geometrica e utilitaristica. Non c’è però alcun guizzo di originalità, alcuna intuizione che stravolga la nostra prospettiva su questo futuro distopico: tutto procede su strade già ampiamente battute – con risultati migliori – in passato.
Dallo sceneggiatore di Moon era lecito aspettarsi qualcosa di più.
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