Ci sono molto cose da dire a proposito di questa quinta iterazione cinematografica di Mission: Impossible.
In realtà ce ne sono sin troppe, quindi ho deciso di raccontarvelo attraverso la sua pietra di volta: Tom Cruise, il più grande divo che Hollywood abbia mai avuto. So che molti di voi troveranno questa iperbole esagerata, ma seguitemi nel ragionamento per un secondo, ok? Cruise inizia la sua carriera d’attore nel 1981 (badate alle date: sono trentaquattro anni fa). Esordisce con Franco Zeffirelli, poi viene diretto da Harold Becker (allora ancora un regista di belle speranze), Francis Ford Coppola e Curtis Hanson. È però grazie all’oscuro Paul Brickman e al film Risky Business che Cruise esplode davvero, diventando una facciotta da poster di quelle che finiscono appese nelle camerette delle adolescenti, tanto è vero che il film seguente è un dramma adolescenziale-sportivo. A questo punto, la carriera di Cruise sembra segnata: è un idolo per le ragazzine. Uno che va bene per un paio di stagioni e poi scompare. Invece lo chiama Ridley Scott che lo vuole come protagonista del suo prossimo film. Ovvero, del prossimo film dopo Alien e Blade Runner. La pellicola è Legend, e si rivela un bagno di sangue al botteghino, ma se la stella di Scott rimane appannata da quell’insuccesso (e tale resterà per anni) quella di Cruise ha appena iniziato a brillare davvero, perché il film successivo è Top Gun, diretto del fratello di Ridley, quel Tony Scott che, Hollywood ancora non lo sa, diventerà presto il regista simbolo della decade. Nel 1986, Tom Cruise decolla per il successo con il suo F-14 Tomcat e non lo ferma più nessuno. La critica è implacabile con lui, eppure negli anni seguenti recita accanto a Paul Newman, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, e da ognuno di loro impara e ruba qualcosa: un certo atteggiamento di Hoffman, un certo sorriso di Paul Newman, una certa maniera di serrare la mascella di Jack Nicholson. Cruise dimostra un fiuto anche nella scelta dei registi con cui collaborare e negli anni successivi viene diretto da gente del calibro di Martin Scorsese, Barry Levinson, Oliver Stone, Ron Howard, Rob Reiner, Sydney Pollack, Neil Jordan. È un periodo perfetto: Cruise non sbaglia praticamente un colpo al botteghino. In quegli anni se c’è la sua faccia sul manifesto, l’incasso è assicurato. Ed è strano perché già all’epoca il buon vecchio Tom non è uno che si attiri molte simpatie: troppo bello, troppo eroe, troppo -smaccatamente- vincente. Il pubblico maschile non si identifica in lui e le donne, stando a quello che dicono le classifiche trovano più sexy icone del periodo come Mel Gibson. Eppure, Tom continua a essere garanzia di ottimi risultati. Nel 1996 esordisce come produttore di un progetto a cui ha pensato parecchio e che cura in quasi tutti gli aspetti: il remake di Mission: Impossible, una vecchia serie televisiva piuttosto amata ma che non è di certo un classico imprescindibile. Perché investirci tanto? Perché Tom vede molte potenzialità in quel franchise e vuole spenderci sopra tutto sé stesso. Alla regia viene chiamato un un autore di razza come Brian De Palma, e il budget è imponente. Il film è un trionfo e Cruise riesce dove gente del calibro di Paul Newman ha fallito, regalando a Hollywood qualcosa che Hollywood ha sempre desiderato: un James Bond americano. Gli anni successivi sono una marcia di gloria per l’attore. Collabora con Cameron Crowe (due volte), Stanley Kubrick, Paul Thomas Anderson, John Woo (per il secondo di M:I), Steven Spielberg (due volte), Edward Zwick, Micheal Mann. E arriva a lanciare in sala il terzo capitolo della serie Impossible (diretto dall’allora talento emergente e adesso colosso hollywoodiano, J.J. Abrams) forte di soli successi di pubblico e critica.
Nulla potrebbe andare storto. E tutto va storto.
Perché da un giorno all’altro tutti i contratti di Cruise vengono recisi e lui, incredibile a dirsi, si trova senza un prossimo film da fare.
Perché?
Molte sono le voci circolate sulla rottura tra Tom e le major hollywodiane. La più accreditata riguarda il ruolo sempre di maggior rilevanza che Cruise avrebbe assunto all’interno della chiesa di Scientology. La profonda (e giustificata) antipatia e diffidenza che gli studios provano nei confronti dell’organizzazione sarebbe quindi la causa dell’allontanamento di Cruise. Quello o i bizzarri (e un pelo spaventosi) atteggiamenti che il divo avrebbe tenuto in alcuni popolari talk show americani. O l’oscura faccenda riguardante Katie Holmes (la sua sterza moglie) e la loro figlia Suri. Qualsiasi fosse la causa, comunque, in termini prettamente cinematografici la carriera dell’attore subì un’inspiegabile stop (anche perché il terzo M:I, pur non eguagliando i capitoli precedenti, fu comunque un grosso successo) che avrebbe spezzato le gambe a chiunque. A chiunque non fosse Tom Cruise, s’intende.
Che non si arrende e continua a seguire la strada che lo ha portato al successo: collaborazioni di alto livello e progetti solidi. Un film con due leggende come Robert Redford e Meryl Streep, un’operazione simpatia insieme a Ben Stiller, Robert Downey Jr. e Jack Black, un film con un regista (inspiegabilmente) stimato come Bryan Singer e poi uno con la promessa (purtroppo non mantenuta) James Mangold. E poi, il ritorno al suo franchise: il quarto capitolo delle avventure di Ethan Hunt. Alla regia, quel geniaccio made in Pixar di Brad Bird, qui al suo esordio come direttore di attori in carne e ossa. La progressione è implacabile, Cruise si riprende tutto quello che era suo e oltre, perché il film di Bird supera il successo di tutte le pellicole precedenti della serie e rilancia in maniera definitiva il marchio e l’attore che ne è il simbolo. Dopo questo quarto capitolo, Cruise si prende una pausa per impare a cantare e ballare (Rock of Ages) e prova a creare un secondo marchio di successo, portando sullo schermo le avventure di Jack Reacher. Il film è ottimo, i risultati al botteghino un pelo meno, ma comunque abbastanza buoni da giustificare un sequel. Di seguito si torna alla passione di Cruise per la fantascienza con Oblivion (un mezzo passo falso nonostante la fama di enfant prodige del regista) e Edge of Tomorrow (un insospettabile successo di critica e pubblico).
E, finalmente, Mission: Impossible – Rogue Nation.
La formula è la solita: un regista autoriale (dopo De Palma, Woo, Abrams e Bird), uno script caciarone il giusto che sacrifica la logica al ritmo e alla spettacolarità, un bel cast di attori per i ruoli comprimari, una certa sobrietà nel trattare la linea romantica, un’attrice co-protagonista bella ma particolare e non troppo ingombrante, buoni effetti speciali, e almeno due o tre scene talmente potenti e iconiche da entrare nell’immaginario collettivo.
E poi Tom, a dominare tutto, al centro della scena sempre, a imporre con le sue scelte produttive e la sua fisicità scenica, la firma sul film. Perché quando si parla di Mission: Impossibile di questo si tratta: non di un’altra impresa di Ethan Hunt (che a conti fatti è un personaggio neutro, con una caratterizzazione minima, senza passato o futuro) ma di una nuova impresa di Tom Cruise. Tom che rimane davvero appeso a un aereo in fase di decollo. Tom che guida davvero la moto nelle scene di inseguimento. Tom a petto nudo che flette gli addominali e fa un numero che nemmeno la più esperta ballerina di lap dance saprebbe eguagliare. Tom Cruise. In full effect e più giovane che mai. Perché l’anagrafe potrà anche dire che ha cinquantatré anni, ma nel film gliene daresti trentacinque, quaranta al massimo. Per il resto, che dire? Che Cristopher McQuarrie non solo conferma tutte le solide qualità che aveva già mostrato nell’ottimo Jack Reacher, ma ne mostra anche di nuove, girando due scene magistrali come quella d’apertura, quella sott’acqua e lo straordinario inseguimento di moto. Che a Simon Pegg lo ami appena appare a schermo. Che Jeremy Renner sembra ormai destinato al ruolo di mediano di qualità, bravissimo e sempre al servizio del film, che quello di Ving Rhames ormai è un personaggio che si portano dietro più per amicizia che per altro, che Rebecca Ferguson è una bella scoperta, che il cattivo, come da tradizione della serie, è debolissimo e che il terzo atto del film, dopo la conclusione esplosiva del secondo, pare un poco miserello.
In poche parole (per modo di dire visto quanto mi sono dilungato) Rogue Nation non solo è il miglior film della serie, ma è anche la consacrazione definitiva (come se ce ne fosse ancora bisogno) dello stato di divinità del grande schermo del signor Cruise. Se poi teniamo conto che i suoi prossimi film saranno Mena (dal regista di Edge of Tomorrow), un nuovo Jack Reacher, un nuovo Mission: Impossible, il seguito di Edge of Tomorrow e Top Gun 2… viene da chiedersi se la sua stella si spegnerà mai.
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