Church in Ruins, sesto episodio di True Detective, sfocia in un finale drammatico che avrà serie conseguenze sull’intreccio della seconda stagione…
Attenzione: il seguente articolo contiene SPOILER
Ray Velcoro (Colin Farrell) e Frank Semyon (Vince Vaughn) si confrontano nella cucina di quest’ultimo, pistola alla mano. Frank afferma di essere in buona fede: quando gli fornirono il nome del presunto stupratore di Ray, era convinto che fosse realmente lui il colpevole. Ray sente di essersi rovinato dopo aver ucciso quell’uomo, ma Frank sostiene che l’omicidio sia stata solo una scusa per imboccare una strada che il detective ha sempre sentito dentro di sé. Era la sua natura. Alla fine, i due si accordano per una mutua collaborazione: Ray lo aiuterà a ritrovare l’hard disk di Ben Caspere, e in cambio Frank gli consegnerà l’uomo che gli fornì il nome del presunto stupratore.
Nella casupola trovata da Ani Bezzarides (Rachel McAdams) e Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), la scientifica scopre che il sangue appartiene a una donna, ma la scena del crimine è stata eccessivamente contaminata, ed è improbabile che si riescano a isolare altri dettagli.
Ray fa visita allo stupratore della sua ex moglie, appena arrestato, e lo minaccia di morte. Poi incontra suo figlio sotto la sorveglianza di un’assistente sociale, ma sente che la situazione è diventata ormai insostenibile. Quella sera torna alle sue vecchie abitudini: si ubriaca e si fa di coca. Sconvolto ma ancora lucido, telefona a sua moglie e le dice che non si opporrà alla richiesta di custodia esclusiva, purché lei non riveli al bambino il risultato del test di paternità.
Frank e Jordan (Kelly Reilly) vanno a consolare la vedova di Stan e suo figlio. Poi, Frank si mette alla ricerca di Irina Rulfo, la ragazza che ha impegnato gli oggetti di Caspere. Ottiene l’indirizzo di una casa dove si rifugiano le prostitute messicane, e vi si reca con i suoi uomini, ma trova i due spacciatori che volevano smerciare droga nel suo locale. Frank gli offre la possibilità vendere la loro droga per un anno senza prendersi una percentuale sui profitti, e loro gli assicurano che Irina lo chiamerà. La telefonata arriva: Irina gli svela che la refurtiva le è stata consegnata da un poliziotto bianco, che l’ha pagata per venderla al banco dei pegni. Frank la convince a incontrarlo, ma nel luogo del rendez-vous trova solo il suo cadavere: Irina è stata appena sgozzata dagli spacciatori messicani perché, secondo loro, lavorava per la polizia.
Paul scopre che i diamanti blu di Caspere furono rubati nel 1992 a una coppia, durante una rapina. La coppia fu uccisa proprio davanti agli occhi dei loro figli piccoli, Leonard e Laura. La loro madre era incinta di un terzo figlio. I bambini furono dati in affidamento, e di loro non sappiamo più nulla.
Intanto, Ani si prepara per infiltrarsi nella festa orgiastica di cui ha ottenuto l’invito grazie a sua sorella. Non potrà portare niente, né borsa né cellulare, ma Paul e Ray la seguiranno da vicino. Giunta in un palazzo circondato da un giardino, ad Ani viene somministrata una droga che comincia subito a confonderle le idee: ai aggira per le sale, circondata da altre ragazze e uomini ben vestiti, che presto iniziano a sfogare i propri istinti; nel frattempo, è tormentata dalle visioni di un uomo (un hippy con barba e capelli neri alla Charles Manson) che, quand’era bambina, la prese e la condusse nel suo furgone.
All’esterno, Ray e Paul neutralizzano una guardia e si avvicinano al palazzo, da cui Paul riesce a rubare alcuni documenti. Accucciata in un angolo del bagno, Ani trova la ragazza scomparsa, Vera Machiado, e la trascina fuori. Un uomo della sicurezza cerca di fermarla, ma Ani lo colpisce ripetutamente con un coltello rubato dal buffet, e lo abbandona a terra mentre si dissangua. Le due donne riescono a uscire, Paul copre la loro fuga, e tutti insieme si allontanano sull’automobile guidata da Ray.
Deep Red
Church in Ruins ripropone l’espediente narrativo già collaudato nel quinto episodio, qui proposto con modalità molto simili: se nei primi 50 minuti l’azione scarseggia in favore dei risvolti psicologici, l’epilogo imprime invece una brusca accelerata al racconto, lasciando sfogare tutta la suspense accumulatasi fino a quel momento. È chiaro che Nic Pizzolatto predilige una costruzione lenta e meditata, ma la violenza può sempre esplodere all’improvviso, e non è mai priva di conseguenze: un parallelo tra la sequenza dell’orgia e la sparatoria del quinto episodio, per quanto differenti, risulta inevitabile.
Tutto ciò che la precede è un’alternanza di sviluppi investigativi e approfondimenti caratteriali, non sempre ben riusciti, ma spesso funzionali alla trama. Come al solito, i monologhi di Frank sono pretestuosi e rischiano di girare a vuoto, come nella scena in cui cerca di consolare il figlio di Stan, rivedendo almeno una parte di se stesso nel dolore del ragazzino. Il suo carattere grezzo rivela però – in questo episodio più che negli altri – qualche ulteriore sfaccettatura, spiragli di umanità dietro alla corazza del gangster: il legame con Ray («Potresti essere uno degli ultimi amici che ho») ci induce a credere nella sua buona fede quando afferma di non averlo incastrato, e il loro tesissimo faccia a faccia con le pistole nascoste sotto al tavolo sembra perennemente frenato dall’affetto virile che nutrono l’uno per l’altro. Anche di fronte all’omicidio di Irina Rulfo, Frank lascia trasparire un barlume di compassione che esula dal mero utilitarismo, come se anche lui, nonostante tutto, avesse un limite oltre cui non oserebbe mai spingersi.
Le vicende personali di Ani e Paul restano ferme, ma lo stesso non può dirsi di Ray, esasperato dal rimorso e dalla consapevolezza dei suoi errori passati. Il frustrante incontro con suo figlio Chad, irrigidito dalla sorveglianza di un’assistente sociale che annota silenziose considerazioni su un taccuino, rappresenta il vertice dei suoi paradossi familiari, e Ray non è più in grado di sopportare l’assurdità delle circostanze. Per questo motivo ricade nelle sue vecchie abitudini, e infine decide di non contestare l’affidamento esclusivo di Chad alla sua ex moglie, purché non riveli mai al bambino il risultato del test di paternità. Esausto, Ray decide di rinunciare a tutto, sempre più conscio di essere la causa dei suoi mali.
Per fortuna, la sua efficienza sul lavoro non ne risente. Gli ultimi dieci minuti di Church in Ruins incidono un altro momento memorabile nella storia di True Detective, poiché la sequenza dell’orgia ha il merito di non cedere al facile voyeurismo pruriginoso che una situazione del genere potrebbe suscitare (o alle atmosfere stranianti di Eyes Wide Shut), ma, al contrario, si focalizza sull’esperienza interiore di Ani. Obnubilata da fumi lisergici, la detective rivive presumibilmente un grave trauma dell’infanzia, quando uno pseudo-Charles Manson abusò di lei nel bosco (o almeno così pare), e ogni grottesca immagine erotica viene filtrata dall’alterazione del suo punto di vista: lo sguardo galleggia in una luce sanguigna, dove le pareti sembrano tessuti organici e l’atmosfera si fa sempre più opprimente, claustrofobica, accompagnata da voci sussurrate a fiori di labbra che si confondono nella musica crescente. Tutto appare sfocato e sospeso, come in un Sokurov prosaico. La fuga è una liberazione, una boccata d’ossigeno, la rottura di un velo che sembrava avvolgere ogni cosa dentro un limbo spazio-temporale: quando i detective si allontatano nella notte, possiamo finalmente rifiatare. Davvero un ottimo epilogo, teso e ipnotico, capace di reggere perfettamente la suspense nell’alternanza tra gli interni (Ani) e gli esterni (Ray e Paul).
La citazione: «Uno dei miei desideri che si avvera: uno stallo alla messicana con dei veri messicani.»
Ho apprezzato: Il faccia a faccia tra Ray e Frank; il percorso accidentato di Ray; le sfaccettature di Frank; l’epilogo.
Non ho apprezzato: Il monologo di Frank con il figlio di Stan.
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