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Ant-Man, la recensione del cinecomic Marvel

Pubblicato il 20 luglio 2015 di Lorenzo Pedrazzi

ATTENZIONE: la recensione contiene alcuni spoiler minori

La gestazione di Ant-Man è stata talmente lunga che le sue prime pulsazioni risalgono a quando i Marvel Studios non avevano ancora rivoluzionato il mondo dei cinecomic, e un singolo supereroe poteva tranquillamente bastare a se stesso. Ora che il film ha emesso i suoi vagiti nelle sale americane, viene da chiedersi quanto sia rimasto del progetto iniziale di Edgar Wright, regista che ci ha lavorato sin dall’inizio (è accreditato come co-sceneggiatore insieme a Joe Cornish) ma che ha deciso di abbandonare la produzione a causa delle solite divergenze con la Marvel, obbligata a imporre la propria visione per garantire la continuity di Ant-Man nel suo vasto universo narrativo. Sicuramente Peyton Reed, Adam McKay e Paul Rudd non hanno lo spirito anarcoide di Wright, ma riescono tutto sommato a rispettarne l’impostazione goliardica, basata sull’alchimia degli interpreti e sulla rielaborazione dei “generi” in forma satirica, ma senza digradare nella parodia.

D’altra parte, la posta in gioco è davvero alta: il Dr. Hank Pym (Michael Douglas) è l’inventore di una tuta che, unita alle “Particelle Pym”, consente di rimpicciolire il proprio corpo fino alle dimensioni di una formica, accrescendo proporzionalmente la forza fisica con l’aumentare della densità corporea. Dopo aver lavorato per anni come agente dello S.H.I.E.L.D., Hank ha deciso di nascondere la sua creazione, ma il suo ex pupillo, Darren Cross (Corey Stoll), ora sta conducendo esperimenti per produrre in serie le Particelle Pym e venderle al miglior offerente, insieme a un’armatura da battaglia soprannominata Yellowjacket (Calabrone). Hank e sua figlia Hope Van Dyne (Evangeline Lilly) progettano di rubarla per evitare che cada nelle mani sbagliate, ma hanno bisogno dell’aiuto di un ex galeotto, Scott Lang (Rudd), reduce da un colpo no global che lo ha tenuto lontano dalla sua bambina per tre anni. Entrambi rinnegati dalla società, costretti ad agire in segreto, Hank e Scott si scambiano il ruolo di Ant-Man per salvare il mondo, sperando al contempo di riguadagnare la fiducia delle rispettive figlie.

Trattandosi di un supereroe francamente impopolare, armato di poteri suggestivi ma bizzarri, l’astuzia del film risiede nell’ibridazione degli stili, al punto che Ant-Man si allontana dal sottogenere supereroistico per avvicinarsi di più alla commedia, al caper movie e alla fantascienza pura, sfiorando addirittura una dimensione metafisica quando Scott Lang – come lo Scott Carey di Tre millimetri al giorno – si riduce a livello subatomico ed esplora il Microverso. È una delle scene più affascinanti di tutta la cinematografia Marvel, nonché la più vicina al versante contemplativo della sci-fi, decisamente insolita per un film come questo. In effetti, Ant-Man è come un virus impazzito che si aggira nell’universo marvelliano, sia in termini caratteriali (basti pensare al rapporto con i dileggiati Avengers, da cui nascono le premesse di Civil War) sia in termini di coerenza strutturale: primo film della Casa delle Idee a raccontare un passaggio di testimone, l’avventura di Scott Lang è ben più “autarchica” rispetto a quelle di Iron Man o Capitan America, poiché impiega la retro-continuity per citare storie mai raccontate prima d’ora, nonostante le flebili connessioni con lo S.H.I.E.L.D.. Inoltre, ridimensiona la morbosità distruttiva dei più recenti blockbuster superomistici, spostando la focalizzazione su una scala più ridotta, eppure ricca di potenziale espressivo. Grazie al rimpicciolimento di oggetti e personaggi, gli ambienti della quotidianità vengono trasfigurati in grandi campi di battaglia per gli spettacolari duelli tra Ant-Man e Yellowjacket, offrendoci alcune tra le migliori sequenze d’azione viste di recente, tutte giocate sulla disparità delle proporzioni e sull’allargamento o restringimento della prospettiva.

L’anima dualistica del film – forse causata proprio dall’alternanza di due squadre creative diverse – si rivela però nella definizione dei conflitti. La stesura finale di Rudd e McKay non riesce ad approfondire il substrato emotivo della trama, quello che guida le azioni di Scott Lang e Hank Pym attraverso un doppio percorso di redenzione, volto a espiare le proprie colpe nei confronti delle due figlie: questi rapporti interpersonali, insieme alla minaccia rappresentata da Darren Cross, non hanno abbastanza complessità per smarcarsi dai soliti cliché, e tendono a replicare alcuni modelli già ampiamente collaudati. Anche per queste ragioni, a tratti si avverte la sensazione di assistere a un cinecomic “minore” rispetto agli altri prodotti dei Marvel Studios, ma le ombre della sceneggiatura ritrovano colore grazie all’affiatamento del cast. I tempi comici di Paul Rudd, Michael Douglas e Michael Peña sono impeccabili, mentre Corey Stoll valorizza un cattivo monodimensionale con una performance venata di hybris e sottile follia.

Blockbuster onesto e divertente, Ant-Man ha certamente il merito di chiudere la Fase 2 con toni più pacati, ma non per questo meno efficaci sul piano dell’intrattenimento e dello spettacolo visivo. La Fase 3 prende slancio da qui, e le due imperdibili scene dopo i titoli di coda gettano le basi per le prossime evoluzioni dell’Universo Marvel, fornendoci qualche indizio su ciò che vedremo in seguito (non alzatevi prima della fine, e occhio agli easter egg: c’è anche un riferimento a un personaggio molto atteso). Speriamo solo che i mondi microscopici di questo supereroe siano d’ispirazione per un approccio stilistico più creativo e meno gratuitamente distruttivo, poiché i cinecomic del futuro – poco importa che siano targati Marvel o Distinta Concorrenza – ne avrebbero soltanto da guadagnarci.

Ant-Man, ultimo film della Fase 2 dei Marvel Studios, è uscito negli Stati Uniti lo scorso 17 luglio, mentre in Italia arriverà il 12 agosto. Per maggiori informazioni potete consultare le nostre news dal blog o la pagina Facebook del film.

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