Dopo un periodo in cui i survival horror sembravano aver ceduto il passo, negli ultimi mesi sono tornati alla ribalta con titoli di spessore come The Evil Within e Alien Isolation, dimostrando che il genere ha ancora molto da dire. A dimostrazione di ciò, ai due titoli citati si aggiunge anche Dying Light, gioco sviluppato da Techland, team che ha una certa esperienza nel settore, basti pensare a titoli come Dead Island e Dead Island: Riptide.
Non a caso infatti in questa ultima produzione troviamo alcuni degli elementi in comune con gli altri due titoli, come la struttura a mondo aperto, la visuale in prima persona, le quest primarie e secondarie, l’importanza riservata al crafting e l’evoluzione del protagonista secondo i dettami del gioco di ruolo. Chi ha giocato a Dead Island e lo ha apprezzato si ritroverà quindi molto in Dying Light, anche se in questo caso le atmosfere sono un po’ cambiate…
La trama non brilla per originalità, anzi, diciamo pure che fa man bassa di tutti gli stereotipi del genere: c’è una città immaginaria che è stata decimata dal solito virus inarrestabile che trasforma ogni essere umano in uno zombie, gli edifici sono abbandonati e i pochissimi superstiti occupano zone protette…
Ma non esistono (per fortuna) solo somiglianze, ad esempio in Dying Light le mappe si estendono in senso verticale: il sistema di movimento infatti è assimilabile a quello di chi fa parkour (e che ricorda molto da vicino quanto visto nell’ottimo Mirror’s Edge), potendo quindi contare su velocissime arrampicate, salti acrobatici e pazzesche scivolate. Il tutto è funzionale al concept del gioco: poter utilizzare le vostre abilità fisiche è fondamentale per sopravvivere agli zombie saltando sopra ai tetti in fughe disperate.
La controparte di questo sistema (che all’inizio lascia un po’ spaesati ma che col tempo non mancherà di offrire le proprie soddisfazioni) è da ricercarsi nell’impossibilità si poter utilizzare un qualsivoglia veicolo (altra differenza con Dead Island): dovrete spesso e volentieri rifarvi molti chilometri a piedi per tornare ad un punto dopo aver completato una missione; se questo all’inizio risulta divertente e adrenalinico, col passare del tempo tende stancare tanto da far sentire l’esigenza di trovare un mezzo di trasporto più immediato.
C’è da dire che fortunatamente il titolo è pieno zeppo di cose da fare, soprattutto per quanto riguarda le quest secondarie che si ottengono dialogando con i PNG, cercando materiali per il crafting ed in tantissimi altri modi: sotto questo punto di vista la varietà non manca ed è incredibile constatare le tante situazioni che i programmatori hanno ideato per tenere sempre desta l’attenzione.
Se non ve la sentite di affrontare da soli orde di zombie tutti da soli, sappiate che Dying Light vi permette di giocare insieme ad altri tre giocatori tramite il classico sistema drop-in/drop-out; a livello di longevità siamo molto vicini a quella di Dead Island (quindi poco sopra le 10 ore per intenderci) ma che può aumentare moltissimo se vi dedicate alle quest secondarie.
Il comparto grafico è più che buono, con ottimi effetti di illuminazione, un convincentissimo effetto del sangue ed un motore che assicura un buon effetto di fisicità (anche e soprattutto durante gli scontri).
Dying Light si presenta quindi come una riuscita miscela tra elementi horror, gdr ed esplorazione, con la particolare (e gradita) scelta di dare un taglio da parkour agli spostamenti. Nonostante le tante innovazioni, resta la forte vicinanza con Dead Island, ma questo va considerato soprattutto in senso positivo viste le qualità indiscutibili del titolo menzionato. Se amate il genere, potete andare a colpo sicuro, soprattutto considerando la miriade di quest secondarie e la possibilità di giocarlo in coop fino in quattro, che rendono questa esperienza non solo gratificante, ma anche piacevolmente lunga.
VOTO: 8.5