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Negare la propria femminilità e diventare uomo per finta. Vergine Giurata, la recensione dalla Berlinale

Pubblicato il 14 febbraio 2015 di Andrea D'Addio

In alcune zone di montagna dell’Albania è ancora praticata l’usanza delle “vergini giurate”, ovvero la “trasformazione” formale di una donna in un uomo, un modo per fuggire – per la ragazza in questione –  da un sistema fortemente patriarcale e maschilista e vivere in maniera più libera, senza matrimoni combinati o doveri da casalinga. Chi decide di optarvi promette davanti a dodici uomini di evitare di lì in poi qualsiasi rapporto sessuale oltre a dovere cambiare nome e assumere un aspetto il più maschile possibile.  È ciò che decide di fare Hana per onorare il padre adottivo dopo che la sorella decide di scappare in Italia per  vivere una relazione non accettata dal resto della  famiglia. La sua scelta però sarà difficile da rispettare nel lungo periodo, soprattutto dopo che si ricongiungerà con la sorella.

La sessualità in tutte le sue forme e varianti è uno dei temi più inflazionati negli ultimi anni dal grande schermo. Omosessualità maschile e femminile, bisessualità, transessualità: come cambia la società così cambia il cinema. Sembrava essere stato affrontato tutto, o quasi, con Vergine giurata ci si rende conto che non è così. La storia di Hana, la sua negazione della sessualità in favore di una struttura sociale di cui paradossalmente ci si può liberare solo tradendo sé stessi, è tanto incredibile quanto vera.

Laura Bispuri, vincitrice nel 2010 del David di Donatello per il migliore cortometraggio, riadatta (con molti cambiamenti) l’omonimo libro del 2007 della scrittrice albanese Done Elvira, riesce a raccontare un dramma di silenzi il cui sviluppo narrativo è affidato agli sguardi della sua protagonista ,Alba Rohrwacher. Non ci sono momenti su cui si indugi particolarmente, tutto ciò che in un altro film potrebbe diventare scena madre, che sia un’intimidazione di gruppo o l’atto del sesso, viene raccontato senza nessuna enfasi, velocemente e senza inquadrature dirette, quasi fuori campo. Dobbiamo osservare il volto di Hana per capire cosa sia cambiato dentro di lei, come se la regia si volesse nascondere e lasciare che sia la sua interprete e ed il freddo paragone con gli altri personaggi femminili che ha intorno, la sorella “ribelle” e la nipote vero esempio di femminilità in divenire, ad essere in grado di dire già tutto, senza bisogno di aggiungere altro. Il rischio è di annoiarsi un po’, ma è una scelta stilistica coerente e che ben veicola il senso del racconto. Tanto Hana guarda passato e presente con fare a prima vista passivo, tanto Laura Bispuri cerca di non apparire, anche se proprio così facendo sceglie una scelta registica forte e quindi “visibile”.

Il risultato è  una pellicola che lascia dentro riflessioni sia antropologiche che sociali e già questo dovrebbe bastare. Guardandolo, nella costruzione delle immagini (non della struttura, qui ci sono continui flashback) viene in mente un altro debutto di una regista italiana, quella Alice Rohrwacher, peraltro sorella di Alba, che nel 2011 firmò il bel Corpo Celeste e tre anni dopo Le Meraviglie, gran premio della giuria a Cannes 2014. Alla Bispuri non si può che augurare altrettanti successi.

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