Cinema Ultime News

Big Eyes, la recensione del film di Tim Burton

Pubblicato il 31 dicembre 2014 di Valentina Torlaschi

[ATTENZIONE, SPOILER SULLA TRAMA]

Le immagini su cui inizia Big Eyes di Tim Burton racchiudono in sé l’essenza del film. Mentre scorrono i titoli di apertura si vede una macchina tipografica che sputa una dopo l’altra, a velocità sostenuta, centinaia di cartoline su cui è stampata in serie la riproduzione di uno dei quadri di Margaret Keane. Il suo dipinto, ennesima variazione dello stesso soggetto, di quei bambini dal volto triste e dagli occhi grandissimi, viene moltiplicato all’infinito per essere poi venduto – come sappiamo – nei supermercati. L’opera d’arte creata dalla mano di Margaret, dal suo unico disegno, dalla sua unica pennellata, non è destinata a un museo per esibirne l’ “aura” – ovvero la sua “unicità, autenticità e autorità”, per dirla con le parole del filosofo Walter Benjamin – ma è usata come oggetto commerciale, come merce. Ottenendo una grande notorietà e grandi guadagni.

L’idea di fare delle cartoline coi quadri degli «occhioni» era venuta al marito di Margaret, Walter Keane: quell’uomo che per anni ha fatto credere di essere lui l’autore dei dipinti portandoli però all’estrema popolarità. Grazie a un marketing ante litteram fatto di risse al momento giusto e nel locale giusto (ossia l’Hungry i di San Francisco), di testimonial d’eccezione nel mondo dello spettacolo e dell’industria come Andy Warhol e il nostro Dino Olivetti, le studiate uscite su quotidiani, riviste e show tv, Walter creò una vera moda introno alle opere di Keane. A questo punto la domanda è: il successo dei quadri di Margaret Keane sarebbe stato possibile senza la mano del marito? Probabilmente no, come dichiara la stessa protagonista interpretata da Amy Adams. Ma soprattutto: l’autore del successo è il creatore materiale dell’opera arte o chi riesce a farla conoscere, apprezzare, a venderla? Qui la risposta di Burton si fa molto più sfumata, ed è in queste nuance di riflessione che risiede la forza e l’interesse del suo ultimo film tratto appunto dalla storia vera di Margaret Keane.

Va detto chiaramente che Big Eyes è un’opera molto diversa dalla filmografia di Burton composta di visioni dark, personaggi gotici e scenari bizzarri. Big Eyes è un film che non punta sulla stravaganza delle immagini quanto sul discorso, sulla storia, sulla parola che veicola dibattiti intriganti. Con un certo disorientamento dello spettatore, lo stile è dunque classico per gli standard burtoniani: l’immagine non cede all’eccentrico ma è al servizio della narrazione, del racconto di questa donna che per anni si è dovuta eclissare e lasciar credere che i suoi dipinti fossero in realtà opera del marito. Una storia che, oltre al discorso sulla riproducibilità tecnica e la mercificazione dell’arte di cui sopra o al ruolo della donna che imprigionata nella società ripete in serie gli stessi errori, diventa spunto di riflessione anche sul rapporto tra gusto popolare e quello accademico-critico e sulla concezione del “bello”: respinti da musei, gallerie e dagli studiosi d’arte perché giudicati kitsch, i dipinti della Keane riscossero un fortissimo gradimento di pubblico. Chi aveva ragione? A questo quesito ormai ineluttabile nell’era contemporanea, Burton sembra a questo punto replicare con le parole dello stesso Warhol che, a proposito dei quadri degli occhioni, disse: «Be’, se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci dev’essere… se piace non può essere brutto».

Facendo un film sul concetto di “autorialità dell’opera d’arte”, il bel paradosso è che l’autore Tim Burton è come scomparso: almeno in apparenza non si riconosce la sua mano, eppure in quegli sguardi oscuri e malinconici di quei bambini sembra di ritrovarlo, e se gli occhi sono lo specchio dell’anima qui questa frase dal gusto banale ripetuta spesso anche nel fime sembra invece più vera che mai. Big Eyes è dunque un’opera avvincente e interessante che, last but not least, ha dato spazio a due volti nuovi dell’universo Burton, ossia Amy Adams e Christoph Waltz: perfetta misurata la prima quanto istrionico il secondo, sono entrambi molto in parte.