Gli ingredienti per attendere Solo gli amanti sopravvivono come uno dei film dell’anno non mancavano: un regista di culto come Jim Jarmusch, due grandi attori come Tilda Swinton e Tom Hiddleston e il tema vampiresco declinato in modo originale. Presentato Fuori concorso al Festival di Torino dopo la competizione di Cannes, il film non delude.
Racconta di Adam e Eve, due vampiri che con i secoli non hanno smesso di amarsi, ma vivono a distanza. Si riuniranno quando il declino del genere umano, che loro chiamano zombie, e la contaminazione del loro sangue metterà a repentaglio la loro esistenza. Scritto dallo stesso Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono è più un dramma nero che un horror, un inno all’arte e alla bellezza come rifugio dal declino, una sorta di Abel Ferrara – specie l’ultimo – più lieve.
Ambientato tra Cleveland e Tangeri, il film si costruisce per allegorie, sussurrate o più esplicite, a partire dai nomi dei protagonisti, sorta di genitori della loro specie ritratti come baluardi a difesa dell’ultima possibilità rimasta all’essere umano, l’arte, la cultura e la bellezza: musicista lui, bibliofila lei, il loro mondo è un eremo in cui preservare e coltivare la memoria dei grandi della storia dell’arte, da Marlowe a Schubert, cercando in ogni oggetto, in ogni essere, in ogni immagine o suono, lo spunto alla forma e all’armonia che potrebbe salvarli e salvarci. Ma il mondo e i suoi abitanti paiono votati all’auto-distruzione, e se la diffusione libera e involontaria dell’arte (Adam vorrebbe evitare che la sua musica si sentisse in giro ma è in ogni dove) è l’appiglio alla speranza, per i due non resta che cercare di sopravvivere.
C’è aria di apocalisse in Solo gli amanti sopravvivono, ma Jarmusch sa condurre la sua riflessione in modo originale, rileggendo la tradizione culturale e iconografica dei vampiri, portando il romanticismo crepuscolare di atmosfere e personaggi (splendidi fotografia e montaggio) dentro un racconto e un modo di pensare il cinema, con le sue complessità ma anche con il suo modo di parlare con lo spettatore, che avvolge e cova dentro. E poi, dove ci sono suoni e musiche belli come quelli di Jozef van Wissem, non ci può che essere arte e bellezza.
[La recensione è stata scritta in occasione della presentazione del film al Festival di Torino]