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All is Lost, la recensione del film con Robert Redford

Pubblicato il 07 febbraio 2014 di Filippo Magnifico

Il primo principio della Legge di Murphy recita: “Se qualcosa può andar male, lo farà”. Ed è proprio a questa regola che si ispira All is Lost, secondo lungometraggio, dopo Margin Call, del regista e sceneggiatore J. C. Chandor, presentato nella sezione Festa Mobile del Torino Film Festival 2013.
Protagonista – nonché unico attore – Robert Redford, che interpreta un uomo senza nome e passato impegnato a compiere una traversata solitaria con il suo yacht. Le cose si complicano subito, quando l’imbarcazione urta un container proveniente da chissà dove. Il danno allo scafo è serio, l’attrezzatura di bordo irrimediabilmente compromessa. Ed è solo l’inizio.

Stando a quanto dichiarato durante la fase di lancio, la sceneggiatura di All is Lost era composta solo da una trentina di pagine. Il motivo è presto detto: si tratta di un film privo di dialoghi (qualche parola ovviamente viene pronunciata, ma si possono sul serio contare sulle dita di una mano).
Riepilogando abbiamo un solo attore di fronte alla macchina da presa, di cui non sappiamo e non scopriremo assolutamente niente, che rimane in silenzio per quasi la totale durata del film. Un esperimento arduo, in grado di superare le ambizioni del recente Gravity, il film di Alfonso Cuarón con Sandra Bullock e George Clooney, anche loro alla deriva, ma nello spazio.
In poche parole la missione era rendere interessanti un paio d’ore impostate sul niente, concentrandosi sull’empatia e mettendo lo spettatore non di fronte, ma proprio accanto a Robert Redford, in modo tale da provare il suo stesso smarrimento emotivo.

All Is Lost Robert Redford foto dal film 1

Da questo punto di vista dobbiamo dire che l’esperimento è riuscito, ma solo in parte. Per quanto riguarda la regia All is Lost è decisamente impeccabile, e non è da meno lo sforzo recitativo. Impegnato nel suo one man show, Redford ci regala un’interpretazione profonda, la sua discesa nel baratro è scandita da smorfie, sfumature dello sguardo e tumulti interiori che riescono a comunicare molto più delle parole. Quello che è la mancanza di empatia, di un qualcosa che possa farci avvicinare di più al suo personaggio. Si tratta senza ombra di dubbio di una scelta volontaria, ma non del tutto vincente.

Se per esempio si guarda ad altri titoli simili, come Cast Away o il più recente Vita di Pi, risulta evidente quanto il background dei protagonisti sia servito a farci provare un reale sentimento nei loro confronti. L’intenzione di J. C. Chandor era quella di riservarci un posto accanto al suo naufrago solitario, è vero, ma si tratta pur sempre di uno sconosciuto.

[La recensione era stata scritta in occasione della presentazione del film al Festival di Torino]