Un viaggio in bianco e nero al cuore degli Stati Uniti. Un confronto tra due generazioni che, nonostante la parentela, sembrano aver poco da dirsi e, al centro di tutto, come sempre i soldi. Un bel mucchio di quattrini, non importa se reali o presunti, che riescono a smuovere persone, sentimenti e situazioni incancrenite da anni. C’è sempre un altro rischio di retorica quando il cinema tenta di affrontare queste piccole grandi storie americane, dove le esperienze quotidiane di persone qualunque vogliono farsi specchio di problemi di natura molto più ampia. Bisogna però ammettere che, a differenza di altri film, in questa sua ultima prova il regista Alexander Payne è riuscito a mantenere in grande equilibrio la componente “macro” e “micro” del racconto, portando sullo schermo in modo non banale sia la storia di un padre e di un figlio che non si sono mai voluti conoscere fino in fondo, sia quella di un Paese dai sogni spezzati e arrugginiti, cui restano solo desolazione, meschinità e rari barlumi di tenerezza.
La trama è semplice e lineare: un anziano signore taciturno, burbero e testardo, si convince di aver vinto un milione di dollari e di dover andar a ritirare il proprio premio in Nebraska, a chilometri e chilometri da casa. Peccato che la sua vincita sia solo una trovata promozionale di cattivo gusto, che non inganna neppure per un attimo i suoi parenti. Nonostante tutto il più giovane dei due figli, commesso senza grandi prospettive né ambizioni di vita, decide di assecondarlo e di tenere in piedi ancora per qualche giorno quell’inspiegabile illusione. Tempo più che sufficiente perché tra parenti e conoscenti del “milionario” si scateni il putiferio, e perché tornino a galla tante vecchie questioni sepolte dal tempo, dalla noia e dalla perdita collettiva del senso dell’esistenza.
Sarebbe però limitativo dire che in Nebraska si parla dell’ipocrisia e della viltà di una cittadina di provincia, in piena crisi non solo economica ma anche morale e identitaria. Questa è solo la parte più evidente del film, e anche quella sottolineata in modo forse troppo ridondante con personaggi e situazioni che si ripetono in maniera molto simile l’una all’altra. Ciò che aleggia in modo meno palese, ma più interessante ed inquietante, è il senso di sconfitta, la disperazione insita in questo ultimo, folle e cieco tentativo di lasciare la propria vita da vincente anzi che in modo mediocre e anonimo. L’ispirazione del film è tutta in quelle rughe e in quello sguardo perso di Bruce Dern, che si fa ritratto di una disillusione così profonda da andare ben oltre il livello personale. La sua sembra più che altro la testarda ostinazione di un mondo che non vuol smettere di credere nel Sogno Americano, anche a costo di ingannare se stesso. Mentre il figlio, Will Forte, che decide di accollarsi questa ovvia pazzia, sembra l’incarnazione di una moderna pietas un po’ goffa. Una pietas che non può salvare un genitore dal suo mondo in rovina, ma può cercare di attutire la caduta con un piccolo e pallido gesto di speranza, meglio comunque del vuoto che circonda lui e la sua famiglia.
Particolarmente azzeccata anche la scelta del bianco e nero, che in realtà è più che altro grigio: uno spesso strato di polvere da cui viene coperto tutto, luoghi, persone e relazioni umane, e che comunque nessuno dei personaggi riesce mai a scrollarsi di dosso. Un tocco di amarezza non scontato, utile a smorzare il sentimentalismo e a rendere più dura una piccola grande storia di provincia, che sotto l’aspetto country e sempliciotto, nasconde un’ispirazione epica nel vero senso del termine, e non in quello che si sente ormai impropriamente usare per ogni blockbuster sfornato da Hollywood.
Candidato a ben 6 premi Oscar, Nebraska è adesso nelle sale italiane, distribuito da Lucky Red.