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Il capitale umano – La recensione del film di Paolo Virzì

Pubblicato il 08 gennaio 2014 di Valentina Torlaschi

Innanzitutto, il coraggio di sperimentare. Maestro di una commedia sempre rivolta al grande pubblico ma mai autolivellata verso il basso e mai pigra fotocopiata di se stessa, Paolo Virzì ha deciso, con Il capitale umano, di addentrarsi nel thriller. Nel panorama italiano attuale, invaso da comici o da presunti autori, dove il cinema di genere è il grande assente, il regista livornese ha quindi intrapreso una strada impervia e poco esplorata, realizzando un film non certo perfetto ma comunque avvincente e audace.

Dopo la Roma periferica e precaria di Tutti i santi giorni, Virzì ci traghetta ora in una Brianza dalle sfarzose ville con piscine e campi da tennis, i Suv tirati a ludico e i liceali in divisa. In questo mondo ricco e meschino, paesaggio umano in bilico tra viscidi ricatti da parvenu provinciali, intrighi di potere da alta finanza e amori destinati all’infelicità da moderni Montecchi e Capuleti, le vite di diversi personaggi s’incrociano in seguito ad un incidente d’auto. Quella de Il capitale umano è una storia corale che si basa su un’architettura narrativa intricata in cui la stessa vicenda viene ri-raccontata per tre volte, ogni volta focalizzandosi sul punto di vista di un personaggio diverso. In tal modo, sfruttando una sceneggiatura a mosaico, gli indizi emergono lentamente ribaltando continuamente le ipotesi su chi sia il presunto colpevole. L’escamotage della narrazione non lineare non è certo nuovo (per dire, Kubrick l’ha usato nel 1956 con Rapina a mano armata) ma come sempre risulta funzionale nel far cresce la tensione e alimentare il mistero. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Stephen Amidon, con l’aiuto di Francesco Piccolo e Francesco Bruni, Paolo Virzì ha trasposto questa stratificata vicenda di brama di soldi e potere dal Conneticut al Nord Italia, peccato che gli ingranaggi non sempre siano oliati alla perfezione e gli angoli di certi snodi narrativi non siano pienamente smussati. Il passaggio, ad esempio, in cui il personaggio di Fabrizio Bentivoglio scova il responsabile dell’incidente non è dei più sofisticati… Detto ciò, nella memoria rimangono impresse diverse scene dai dialoghi sagaci e ben scritti come quella della riunione in giardino in cui la ricca e annoiata signora Valeria Bruni Tedeschi vuole discutere della sua idea di ristrutturazione di un teatro della provincia, coi soldi del marito ça vas sans dire. Al tavolo di progetto vengono così chiamati un professore stropicciato e appassionato (Luigi Lo Cascio), la “severa critica teatrale della Prealpina” che inneggia alla morte del teatro (sarcasticamente interpretata da Federica Fracassi: grandissima attrice dei palcoscenici nostrani, Premio Duse nel 2011 nonché co-fondatrice dell’acclamato Teatro i di Milano), l’amministratore comunale con cravatta e fazzoletto verde che propone il coro di voci padane perché “la gente che lavora la sera è stanca e non vuole spettacoli che non si capiscono o fanno venire il mal di testa” . Qui, ogni parola è soppesata con magistrale precisione nel suo essere leggera e tagliente al tempo stesso.

Come sempre, il regista Virzì si conferma un gran direttore di attori: la consolidata tecnica drammaturgica di Fabrizio Gifuni è ben sfruttata, ma anche Bentivoglio, la Golino e Valeria Bruni Tedeschi sono assolutamente in parte. Ottima la scelta dei tre ragazzi, ossia i (quasi) esordienti Giovanni Anzaldo, Guglielmo Pinelli e Matilde Gioli: soprattutto quest’ultima, oltre ad avere uno sguardo magnetico alla Eva Green (anche se in alcuni han fatto il nome della Jolie), è davvero un giovane talento da tenere d’occhio.

Nota a margine: al ritratto così ambiguo e spietato della loro operosa terra, i veri nordici e brianzoli hanno reagito con rabbia alimentando polemiche sul web e sui giornali con titoli come “Soldi pubblici al film che insulta chi lavora”. Una polemica buffa, come l’ha definita lo stesso Virzì, anche perché la Brianza del film è totalmente immaginaria e metaforica. Diatribe del genere, comunque, non sono nuove: vi ricordate quando l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti, nel 2006, se la prese con A casa nostra perché «Milano non è quella dipinta dal film della Comencini. Milano è molto più bella»? Oppure vi rammenderete certo di quel politico che scrisse «se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di ‘Umberto D.’ è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione». Era il 1952 e le parole sono quelle di Giulio Andreotti. Corsi e ricorsi della storia…