[RIPUBBLICHIAMO LA RECENSIONE SCRITTA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL FILM ALL’ULTIMO FESTIVAL DI VENEZIA – SEZIONE ORIZZONTI]
In America c’è il football, uno degli sport più cinematografici che ci siano. In Europa c’è il rugby che nonostante la popolarità soprattutto recente non pare avere lo stesso appeal per la settima arte. Ci prova a smentire l’assioma Enrico Maria Artale, regista proveniente dal cortometraggio ed esordiente nel lungo grazia al Centro Sperimentale e ad Aurelio De Laurentiis. Ma Il terzo tempo è lontanissimo dalla propria meta.
La storia è quella di un ragazzo sbandato e in semi-libertà che un assistente sociale cerca di convertire alla causa del rugby, coinvolgendolo nella propria squadra. Ma sarà difficile per il giovane stare lontano dai guai, anche a causa della bella figlia dell’allenatore/assistente.
Scritto dallo stesso Artale con Francesco Cenni, Luca Giordano e Alessandro Guida, Il terzo tempo è un dramma leggero costruito sullo scheletro del cinema sportivo che vorrebbe ripercorrere la scia americana contemporanea che ha dato il meglio con Friday Night Lights.
Ovviamente Artale non usa semplicemente il rugby come pretesto narrativo ma ne fa il vero protagonista del film, con le sue leggi e regole, i suoi valori simboleggiati dal terzo tempo del titolo, quello in cui le due squadre e tifosi si incontrano per festeggiare a prescindere dal risultato, il gioco di squadra come unico possibile e il rispetto dell’autorità che lo pone al di sopra del vituperato calcio. Ma nel suo seguire personaggi, luci, colori e musiche già sentite oltreoceano, Il terzo tempo perde di vista l’obiettivo di trovare una propria via al racconto del rugby.
E così Artale si perda in un racconto in cui ogni snodo è prevedibile con 2 o 3 scene d’anticipo, in cui la regia fa fatica a entrare, anche visivamente, nel mondo del rugby, e adagiandosi su un finale che, senza troppa ironia, sembra un remake di quello dell’Allenatore nel pallone. Certo, Stefano Cassetti non è una macchietta come Oronzo Canà, ma è certo che l’impegno degli attori, la cosa migliore del film, non salva una pellicola che pare uscita da un cinema industriale stanco, e la cui presenza nella sezione sperimentale della Mostra del Cinema di Venezia, Orizzonti, è stata incomprensibile.