Ritornare a fare cinema dopo 23 anni, per la precisione dal ’90 di Il ladro dell’arcobaleno: Alejandro Jodorowsky ha fatto trascorrere tutto questo tempo prima di dare alla luce La danza de la realidad, autobiografia fuori concorso (After Hours) a Torino dopo essere stato presentato a Cannes. Ed è un ritorno con i fiocchi, sorprendente per molti versi.
Il film racconta l’infanzia del regista, figlio di un ebreo e comunista denigrato da tutti, che decide di andare ad assassinare il generale che tiene il Cile sotto una dittatura militare; l’impresa si mescola con la crescita difficile del bambino, tra ossessioni virili una madre canterina. Scritto e prodotto dallo stesso Jodorowsky che ha coinvolto gran parte della sua famiglia, La danza de la realidad è un racconto in prima persona che si tinge dei toni dell’Odissea, dell’epica politica, del caleidoscopio di invenzioni e generi, dall’opera al circo, dal musical socialista al balletto, da Fellini a Garcìa Marquez.
Ovviamente il racconto della propria famiglia e dell’infanzia, ampiamente e superbamente romanzato, è solo il punto di partenza di un film che nella storia di due emarginati, doppiamente tanto per credo politico che per origine visto il regime in cui vivono, trova la chiave per raccontare l’odissea di un popolo che ha sempre lottato per conquistare la propria libertà, riflettendo nel frattempo sugli esseri umani come principale ostacolo alla realizzazione di ogni utopia.
Girato in un digitale spesso usato in modo straordinario, il film di Jodorowsky guarda ai temi tipici della sua arte, come l’occultismo e la spiritualità, la rivoluzione e la deformazione surreale, per iniettarvi dosi di humour e per fare irradiare ai suoi personaggi un calore e un pathos che altrove non conoscevamo. Segno di una vecchiaia che, senza dimenticare l’acume e il graffio, sa immaginare e raccontare con un senso epico del cinema e dell’arte che ancora oggi lascia stupefatti.
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