Attesissimo dai fan del cinema indipendente americano e della sua musa Greta Gerwig, Frances Ha – opera numero 7 del regista americano Noah Baumbach – arriva al Festival di Torino nella sezione fuori concorso Festa Mobile circondato da un’aura mitologica, vuoi per le grandi recensioni dagli USA e dal mondo, vuoi per il posizionamento nella top 10 di tarantino. Fanatismi a parte, Frances Ha è un gioiello.
La protagonista che dà il titolo al film è una ragazza precaria nelle ambizioni, nelle abitazioni, nei sentimenti. Non nell’amicizia con l’amica Sophie, che però un giorno va a vivere con il fidanzato costringendo Frances a un pellegrinaggio tra amicizie e nuove case, forse nuovi amori. Scritto da Baumbach con Gerwig, Frances Ha è una commedia in bianco e nero che ravviva con leggerezza e originalità il cinema di Woody Allen – come Manhattan al femminile e senza cinismo -, i tocchi Nouvelle Vague di François Truffaut e le modalità del cinema indipendente americano.
Frances Ha è un film doppiamente raro: perché da una parte racconta il pellegrinaggio urbano di una ragazza che non ha una casa propria, non si può permettere uno degli esosissimi affitti – anche in zone non di tendenza – di New York ed è costrette a ripiegare su esperienza di convivenza e coinquilinato difficili; dall’altra, mette in scena una storia di dipendenza femminile, un’amicizia dipinta quasi come una more finito, un legame di cui non si può fare a meno e che è talmente forte da voler superare anche le costanti delusioni. Su questo doppio e originale binario, Baumbach e Gerwig riflettono sull’adeguatezza delle persone nel mondo, sulla consapevolezza mediata dagli occhi altrui, dai rapporti con gli altri e lo fa con un film lieve e pensoso, illuminato nonostante il bianco e nero quasi monocromo, che nelle movenze della sua protagonista, ballerina goffa, trova una perfetta sintesi.
Baumbach amplia il bagaglio stilistico del suo cinema già molto interessante (recuperare per credere Il calamaro e la balena e Lo stravagante mondo di Greenberg) e realizza un’opera completa, matura e ricca, in cui il lavoro sui tempi, i modi e i corpi degli attori – da sempre al centro del suo lavoro – si sviluppa assieme allo sguardo più composto e composito, alla cura per la messinscena, all’uso inventivo di musiche (tra cui David Bowie, Rolling Stones, Harry Nilsson e varie musica classica e da camera) e del montaggio di Jennifer Lame. E’ chiara però che alla base tutto c’è il magnifico e sbilenco carisma di Gerwig, pietra angolare di un film e di un genere. A ben vedere, forse, di un intero mondo.
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