Cinema

Roma 2013, i commenti ai vincitori e ai premi

Pubblicato il 17 novembre 2013 di emanuele.r

Dopo Gianfranco Rosi e Sacro GRA, continua la riscossa internazionale del cinema del reale italiano che piazza all’8° Festival di Roma la vittoria di Tir, il film di Alberto Fasulo – documentarista di livello – che racconta una storia a soggetto preparandola e narrandola attraverso i moduli del documentario: un bel film che comunica un’idea di cinema interessante, essenziale, che cerca di comunicare attraverso modelli di visione differenti. Più che un emulo del film di Rosi, Tir, e la sua vittoria, dimostrano la fertilità del cinema del reale e delle sue estensioni, l’unica scena cinematografica italiana davvero vitale. Interessante anche il premio alla regia per Seventh Code di Kurosawa Kiyoshi, assieme al riconoscimento al montaggio, segnale per un film che ha proprio nell’idea di cinema, nella sua forma, il suo punto di forza, oltre a racchiudere nel finale l’inquadratura più bella del festival.

Poco da dire sugli attori: Matthew McConaughey in Dallas Buyers Club, dimagrito di 35 chili, e Scarlett Johansson in Her, che fa innamorare ogni spettatore e farlo palpitare solo con le modulazioni vocali, sono premi meritati e previsti, e quasi le due visioni opposte dell’arte dell’attore, comunicare attraverso la manipolazione fisica o la pura vocalità. Meritato anche il premio all’attore esordiente per il cast di Acrid, film iraniano le cui attrici dimostrano la forza della classe d’attori del paese mediorientale. Più discutibili il gran premio della giuria, assegnato al rumeno Quod erat demonstrandum, film più interessante e giusto che riuscito, e alla sceneggiatura di I Am not Him, bloccato in un’idea simbolista di cinema d’autore invecchiata. Sacrosanta invece la menzione per Cui Jian, il grande cantante e inventore di forme musicali che con il suo lavoro ha combattuto la dittatura cinese, che ha esordito alla regia con il vitale Blue Sky Bones. Nella sezione sperimentale CinemaXXI ha vinto Nepal Forever di Aliona Polunina, curiosa versione sovietica di un esperimento à la Borat con tratti folgoranti.

Il palmares ha colto quasi tutti i film di interesse o valore del festival, con l’esclusione di The Mole Song di Miike Takashi, magari non premiando il migliore in assoluto (per chi scrive Her di Jonze) ma puntando i fari sui titoli giusti. E anche il festival può dire di aver puntato i fari nella giusta direzione, quella del “festaval” come l’ha definita Muller, ossia manifestazione per cinefili curiosi e appassionati, ma anche luogo di ritrovo per i cittadini romani ai quali regalare bei film, grandi spettacoli, bagni di folla e prodotti di valore, come Snowpiercer, Il paradiso degli Orchi, Las brujas de Zugarramurdi e altri. E se poi un festival serve a giustificare la presentazione e visione di un capolavoro come Hard to Be a God di Aleksei German, ben venga qualunque festival.

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