In un film dalle venature romantiche, in cui si parla dei rapporti di coppia e della loro complessità, ci si aspetta normalmente di avere come minimo due attori in scena. In Her, ultima opera di Spike Jonze presentata oggi in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, il gioco è invece a due voci ma a un solo volto: quello di Joaquin Phoenix, impegnato nel ruolo di un uomo solitario e malinconico che comincia senza accorgersene una relazione con la voce del suo computer (Scarlett Johansson). Qui potete trovare la nostra recensione del film, mentre di seguito l’intervista che abbiamo realizzato con l’attore in occasione della kermesse capitolina.
Joaquin Phoenix, cosa l’ha colpita di questo film, perché ha scelto di prendervi parte?
Penso di essere stato sempre molto fortunato come attore e lo sono stato ancor di più quando mi è giunta questa proposta da parte di uno dei più grandi registi americani che ci siano. È un film pieno di elementi e di idee stimolanti che mi hanno entusiasmato sin da quando ho letto la sceneggiatura. Non c’era assolutamente alcuna ragione per non accettare.
Nel film si parla molto di tecnologia e di come influenzi le relazioni umane. Qual è la sua opinione a riguardo?
In generale sono molto ottimista riguardo alla tecnologia e a dove ci può portare nel futuro. Non penso si debba demonizzare e anzi vedo di buon occhio qualsiasi tecnologia, anche gli effetti speciali. Certo, se poi gli stessi effetti vengono impiegati nello stesso modo un film dopo l’altro, senza alcuna innovazione, è sbagliato e diventa un abuso. Ma questo perché si tratta di un mezzo e come ogni mezzo tutto dipende da come ciascuno di noi lo utilizza. Detto ciò, non è che abbia tutti questi gadget high-tech, ho giusto il mio telefono. Mi piace leggere riviste, approfondire il tema, capire come funzionano i prodotti e tenermi aggiornato, ma non significa necessariamente che li usi in prima persona.
E i rapporti umani? Pensa che riuscirebbe ad avere una relazione così virtuale come quella descritta nel film?
Mi è capitato piuttosto di avere una relazione con una persona reale che però sembrava finta. È proprio la domanda al centro del film: cosa si può definire realtà, quali sono le vere emozioni, come si fa a valutare la veridicità di un sentimento? C’è una scena molto significativa con Amy Adams in cui il mio personaggio le confessa di aver paura di non essere capace di gestire le emozioni reali. Lei di contro gli chiede per quale motivo i sentimenti che prova in quel momento non dovrebbero essere reali, dato ce li sta provando. Penso che ciò riassuma la questione alla base di Her.
Il protagonista a un certo punto del film dice: “Temo di aver già provato tutte le emozioni che un essere umano può provare”. È qualcosa che si sente di dire come attore?
Proprio no. Credo che non riuscirò mai nemmeno a pensare una cosa del genere. Probabilmente a 65 anni sarò ancora in cerca di nuove esperienze e di qualcosa di nuovo da fare. L’insoddisfazione è parte della natura umana ma è proprio quella che ci ha portato sulla luna. L’ambizione, il desiderio di confrontarsi con nuove sfide è quello che ha consentito all’umanità di andare avanti, di progredire.
Arrivato a questo punto della sua carriera, cosa lo porta a scegliere un film? Cosa lo deve emozionare?
Se avessi una risposta a questa domanda chiamerei subito il mio agente e gli direi di selezionarmi solo quelli. In realtà non c’è un criterio fisso, dipende dal tipo di progetto, se rispecchia ciò che cerco in quella fase della mia vita. E molto dipende naturalmente dalla sceneggiatura, ma non solo dal fatto che la trovi valida o meno. Devo sentire che c’è qualcosa di più che potrei tirare fuori da quel copione, qualcosa che non si esaurisce nella lettura. Mi è capitato anche di rifiutare dei ruoli in film che si sono rivelati validissimi, ma che non avevano quel tipo di fascino per me.
È stato difficile interpretare tutte le fasi di una storia d’amore senza avere mai una partner con cui condividere il set e lo schermo?
Credo che la parte più difficile sia toccata al regista, Spike Jonze, che si è dovuto inventare un modo per portare avanti il film con un solo pezzo della coppia visibile sullo schermo. Per quanto riguarda me, sapevo che sarebbe stato complesso. Ogni lavoro che faccio penso sia la sfida più grande che abbia mai affrontato, però credo anche che non sempre il concetto di difficoltà di un attore corrisponda a quello percepito invece dal pubblico. Ci sono scene molto drammatiche che contano molto per il personaggio ma che non sono necessariamente le più difficili da girare.
Non pensa che in fondo ogni amore sia virtuale, una specie di stato della mente?
È qualcosa su cui ho riflettuto molto e a cui non so dare una risposta. Riporta sempre al tema centrale del film, che mi affascina molto: cos’è la realtà? Può esistere davvero o ci sono tante realtà quante sono le nostre percezioni soggettive? Qualche tempo fa ho letto un articolo dannatamente interessante su una ricerca che tentava di dimostrare come tutto ciò che viviamo sia frutto di una simulazione, come in Matrix. Non ho le conoscenze scientifiche per argomentarvelo meglio ma insomma, potremmo arrivare a scoprire che tutta la nostra realtà è, in verità, una finzione.
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