Attenzione, contiene spoiler.
Il successo di C’era una volta ha fatto credere a Kitsis, Horowitz, Estrin ed Espenson di poter declinare la formula degli intrecci tra varie fiabe, dei piani ontologici tra realtà e mondi immaginari, in molti modi, prendendo magari uno dei più amati personaggi romanzeschi: Alice e il suo paese delle meraviglie. Ma Once Upon a Time in Wonderland dimostra che hanno sbagliato di grosso.
Alice torna a casa dal padre; tutti pensavano fosse morta. Per le sue storie sul Paese delle Meraviglie verrà rinchiusa in un manicomio, dove il Dr. Lydgate cercherà di curarla. Prima dell’operazione, viene salvata dal Fante di Cuori e dal Bianconiglio che le rivelano che Cyrus, il suo amato, è ancora vivo.
Scritto dai 4 creatori e diretto da Ralph Hemecker, Down the Rabbit Hole – il pilot dello spin-off – sembra direttamente collegarsi alla versione burtoniana (già deludente di suo) del romanzo di Carroll mischiando i colori luminosi e le tinte dark, ma sembrando più una cattiva produzione anni ’90 che la versione XXI secolo delle fiabe.
L’idea è piuttosto buona, ossia raccontare lo scontro tra la realtà e l’immaginazione, la follia di ciò che è vero e la sensatezza di ciò che creiamo con la mente, ed è interessante dipingere il Paese delle meraviglie come un mondo post-apocalittico dominato dalla Regina Rossa, con tutto ciò che ne consegue, odio per Alice incluso (vedere come reagisce il Gatto del Cheshire). Peccato che non funzioni nulla: la storia fa acqua e confusione con trame inesistenti e innesti deliranti (Jafar che fa il doppio gioco con la Regina?), il casting è davvero ridicolo e tra un’imbambolata Alice (Sophie Lowe), una tremenda Regina al silicone (Emma Rigby) e Iggy Pop sprecato nel Brucaliffo, si salva solo il fante di Michael Socha, per non parlare di una realizzazione tremenda, in cui la regia e il montaggio non hanno idea di come si racconti una storia, si crei un minimo di suspense, si diriga e realizzi ogni scena.
Come si fa nel 2013, in epoca di alta definizione e di televisori enormi che svelano ogni difetto minimo, a concepire e realizzare effetti speciali visivi e scenografie in digitale di quella bruttezza, come se la CGI fosse stata barattata per un programmino gratuito per fare le grafiche sui video fai da te? Come si può far passare una scena come quella finale, in cui ci si aspetta solo che un conduttore degli anni ’80 arrivi a parlare con l’eco? Misteri dell’ABC e del dilettantismo anche nella professionalissima America.
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