SW dal GIAPPONE.
Se siete degli appassionati di Giappone, di cinema nipponico o anche solo della settima arte, il nome di Kore’eda Hirokazu non vi sarà certamente nuovo. Da molti considerato il più grande autore giapponese contemporaneo, anche oltre Kitano Takeshi e Miike Takashi, e da altri visto come semplicemente un buon regista, Kore’eda ha senza dubbio costruito nel tempo un opus cinematografico molto importante fondato su tematiche quali la famiglia, il passare del tempo e la caducità delle cose umane. Partito dal documentario televisivo, rivelatosi poi con un gioello di quasi astratta bellezza come Maboroshi (o Maborosi) del 1995 e svelatosi al pubblico internazionale con la partecipazione a Cannes di Nobody Knows nel 2004, Kore’eda ha continuato in questi ultimi anni a delineare quella sua poetica fatta di silenzi e del non detto, che qualcuno ha paragonato al cinema di Yasujiro Ozu, con un altro riuscitissimo lavoro, Still Walking del 2008 dichiaratamente un omaggio al regista di Tokyo Story, ed una serie televisiva dai toni quasi surreali come Going My Home dell’anno scorso.
Al culmine di questo percorso, poetico e personale, in queste due settimane è arrivata anche la soddisfazione del successo al botteghino, due week end che hanno visto il suo ultimo film, Like Father, Like Son sempre in testa, con un incasso complessivo di più di 14 milioni di yen, numeri e risultati impensabili fino a solo qualche anno fa. Questa sua ultima fatica, grazie certamente alla popolarità stellare del protagonista Fukuyama Masaharu ma anche grazie ad una storia che interroga il ruolo genitoriale e l’importanza dei legami di sangue, ha saputo portare al cinema praticamente tutte le tipologie di spettatori. Nei teatri giapponesi che proiettano il film, si vedono infatti affollare le sale giovani coppie, adolescenti, anziani e famiglie, insomma il film è riuscito a sfondare un po’ tutti i confini ed anche in questa caratteristica denota la grandezza del suo regista.
(The Great Passage di Ishii Yuya)
È stata quindi una sorpresa quando si è saputo che a rappresentare il Giappone alla corsa per gli Oscar era stato scelto The Great Passage di Ishii Yuya, bel film certamente, molto apprezzato dalla critica e per di più opera di uno dei giovani registi, solo trent’anni ma già una discreta filmografia, più bravi in circolazione. Ma l’attesa, il sentore che c’era un po’ nell’aria, dopo la partecipazione a Cannes e l’acquisto della DreamWorks dei diritti per il remake, era quello di vedere proprio Like Father, Like Son provare a ricevere la nomination come miglior film straniero. Ma per gli insondabili misteri che spesso si celano dietro al mondo del cinema giapponese, il film di Kore’eda e fra l’altro anche un altro lavoro che avrebbe potuto ambire alla chiamata, l’addio all’animazione di Miyazaki Hayao, The Wind Rises, non sono stati scelti.