Attenzione, l’articolo contiene spoiler.
E’ la nuova frontiera del thriller spionistico declinato nella sua accezione più politica, e ha fatto il botto in tutti i sensi. Perché Homeland ha conquistato spettatori, critici e industria che l’ha sommerso di premi (ultimo l’Emmy a Claire Danes), e perché il finale della 2^ stagione era proprio una bomba che devastava la sede della CIA a Langley. La 3^ stagione, partita praticamente in contemporanea su Showtime in America e Fox in Italia riparte da quella bomba, soprattutto dai suoi crateri, fisici e spirituali.
I due episodi che aprono la stagione infatti (Tin Man Is Down e Uh…Oh…Aw) si concentrano su cosa è accaduto ai personaggi dopo la bomba e la figura di Brody, presunto colpevole: Carrie sotto processo per sospetto aiuto al terrorismo e con il suo passato di malattie mentale che torna a farsi vivo, la famiglia di Brody alle prese con il tentato suicidio della figlia e Saul costretto dall’umana vicinanza a Carrie e il dovere di proteggere la CIA e trovare i terroristi.
Scritti da Alex Gansa, Barbara Halle e Chip Johannessen e diretti da Lesli Linka Glatter, i due episodi cambiano rotta dopo l’accelerazione incontrollata della 2^ stagione, soprattutto del suo finale: poca azione, meno suspense nel senso tradizionale, se non per una sequenza stile 24 nella première, e molto studio dei personaggi, soprattutto femminili.
Il che è il punto di forza e anche la maggior fonte di rischi di questo avvio di stagione che si svolge amplificando l’assenza del suo protagonista Brody concentrandosi sulle conseguenze delle sue scelte: e sono le donne a subirne i peggiori effetti, soprattutto Carrie che sente sulla sua pelle il peso del potere maschilista della CIA che cerca di schiacciarla e di toglierla di mezzo, confinandola in manicomio, per non farla parlare del suo rapporto con Brody e delle decisioni dell’Agenzia. Il controcanto, paradossalmente simile perché Carrie è unaparte del problema, è nella famiglia Brody, nella disperazione impotente di Jessica che oltre alle verità sul marito deve scoprire le verità sulla figlia, la quale confonde di continuo l’odio per il padre con l’amore, la rabbia per i genitori e quella per se stessa: nella sequenza più bella, Dana scopre gli oggetti con cui il padre pregava Maometto, li stende, e mentre li usa abbraccia il ricordo di un padre perduto.
Un avvio che ha fatto storcere qualche naso e che specie nella seconda parte può far sorgere qualche legittimo dubbio di tenuta narrativa e di interesse, ma la scrittura e la recitazione non perdono un colpo e l’introduzione di due nuovi personaggi in seno alla CIA, la tecnica bancaria musulmana Fara e l’agente Quinn, che si denota sempre più come possibile scheggia impazzita in seno a un potere burocratico. Avrà cambiato direzione e potrà piacere meno, ma Homeland ha molte frecce ancora da scoccare. Come il promo del prossimo episodio suggerisce.
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