Il regista Amos Gitai ha spesso abituato gli spettatori, soprattutto nei festival, a sfide di tipo tecnico. Il suo nuovo film Ana Arabia, in concorso alla 70^ Mostra del cinema, è un unico piano sequenza di 84 minuti in cui gli attori, come su un palco teatrale, raccontano storie di confini.
La protagonista è una giornalista che va a trovare una famiglia allargata discendente di una sopravvissuta all’olocausto convertita all’Islam. Qui incontra una famiglia di reietti, che hanno subito il vivere tra due culture ma che attraverso i loro racconti testimoniano di non volersene privare.
Scritto dallo stesso Gitai con Marie-Josée Sanselme, Ana Arabia è un dramma a tinte leggere orale più che teatrale, nel senso che basa i suoi temi e il suo scorrere sul racconto, sia in chiave di testimonianza, ma anche in chiave di espressione culturale antica.
Non a caso il veicolo per comunicare con lo spettatore è il giornalismo, versione moderna del racconto orale, che si confronta con la realtà di storie che abitano la quotidianità israeliana (molti personaggi interpretano se stessi o quasi) e ritraggono un luogo in cui i confini anziché separare riuniscono, come mostra l’ultima inquadratura, con le baracche dei personaggi in mezzo ai palazzi e al centro cittadino; Gitai però è anche consapevole che questa realtà è marginale e residuale nella propria terra e infatti, con ironia, riflette sul rapporto tra culture come eccezione.
E’ un’eccezione però che diviene esemplare per lo spettatore avvolto dal movimento della macchina e dalle parole degli attori (favoloso il capo-famiglia Yussuf Abu-Warda), guidato dalla bellezza incredibile di Yuval Scharf: così Ana Arabia diventa un viaggio attraverso varie culture, vari generi e vari modi di vivere la marginalità, di elaborarla e comunicarla, nella spranza che i ue popoli coinvolti, così come le loro lingue, non si separino mai davvero.
Anche quest’anno ScreenWEEK è al Lido per seguire la 70. Mostra del Cinema di Venezia. Continuate a seguirci per tutti gli aggiornamenti dal Festival.