«Quando scendo in pista sono consapevole di avere il 20% della possibilità di morire». Così, con la sua disarmante razionalità e freddezza, Niki Lauda immortala l’ineluttabile “componente assassina” di uno sport come la Formula 1. E allora perché farlo? Perché «solo quando sei così vicino alla morte, ti puoi sentire realmente vivo» risponde con il suo compiaciuto romanticismo James Hunt.
Siamo nel 1976 e sui circuiti mortali del campionato mondiale di quell’anno sono proprio loro i protagonisti assoluti: l’austriaco Lauda, pilota della Ferrari, e l’inglese Hunt della scuderia McLaren. Due uomini agli antipodi, nello sport come nella vita. Due uomini incatenati da una rivalità accanita e da un’ossessione reciproca ma tra i quali s’innescherà una sottile amicizia, di quelle che si nutrono più di stima a distanza che non di una condivisione di idee o di vita vissuta. Questa la storia di Rush.
Dopo Frost/Nixon – Il duello, ancora una volta supportato da una testa di serie della sceneggiatura come Peter Morgan (penna candidata agli Oscar per The Queen), Ron Howard racconta di un’altra sfida dove i “combattenti” sono sempre personaggi veri e, curiosità, sempre proveniente dagli anni ’70. Rispetto però all’ottima pellicola sulla battaglia televisiva tra il Presidente Richard Nixon e il giornalista David Frost, sebbene avvincente ed emozionante, Rush risulta tuttavia più semplice e didascalico. E questo anche perché sono gli stessi duellanti protagonisti a essere assai meno sfaccettati, sfuggenti, ambigui. Rispetto alle “figure a tutto tondo” di Frost e Nixon, il Niki Lauda interpretato da un perfetto Daniel Brühl e il James Hunt impersonato da un convincente Chris “Thor” Hemsworth sono i classici “personaggi tipo”: caratterizzati da tratti molto netti e qualità specifiche, Niki è tanto razionale-brutto-calcolatore quanto James è passionale-bello-spericolato. Siamo di fronte a due figure antitetiche, due uomini granitici nei loro caratteri, che non cambiano quasi in nulla nel corso della storia sebbene tra loro scorra la sfida e si instauri il dialogo.
Ma questo non significa che i protagonisti di Rush non siano affascinati o coinvolgenti, anzi. Sono solo più immediati, popolari, più genuini. Più semplici. E riescono comunque, rimbalzandosi perfettamente a vicenda la palla del protagonista e dell’empatia con lo spettatore (notevoli, lo ribadiamo, le interpretazioni di Hemsworth e Brühl), a costruire un bellissimo ed emozionante “elogio del nemico”. Con retorica, sì, ma con una retorica che, a parte certi passaggi pomposi delle musiche di Hans Zimmer, è inevitabile e perfino giusta.
Con una regia classica (perfettamente al servizio della storia nel sottolineare l’adrenalina che corre sui circuiti percorsi così come la drammaticità nelle stanze d’ospedale o anche certa ironia nei dialoghi) e una fotografia vivida (le scene sotto la pioggia sono “dipinte” con grande intensità), Rush riesce a trascinare lo spettatore per due ore pur procedendo esattamente come ce lo si aspetta per strade visive battute, senza guizzi registici o sperimentali di nessun tipo. Ma del resto, un po’ anche questo è il fascino e il mistero della Formula 1: il circuito è noto, le curve sono quelle e i sorpassi spesso sono pochi, eppure gli occhi di chi guarda restano incollati allo schermo. Perché, come spiegava lo stesso Hunt nella frase riportata a inizio articolo, la Formula 1 ha a che fare con la morte, ma anche con la vita. E questo ha a che vedere col cinema e viene raccontato dal grande e semplice film di Ron Howard.
Rush uscirà nelle sale italiane il 19 settembre.Nel film troviamo anche Olivia Wilde nel ruolo della modella Suzy Miller nonché moglie di Hunt e il nostro Pierfrancesco Favino nei panni del pilota svizzero Clay Regazzoni.