Non è solo il fatto che il calcio è sacro per l’Italia e altri paesi a bloccare una produzione cinematografica all’altezza di altri sport. C’è anche il fatto che è uno degli sport meno cinematografici, per i tempi lunghi dell’azione, per il campo lungo con cui lo riprende la tv che limita le possibilità plastica. Non a caso i film migliori guardano alla fiaba, come il magnifico Fuga per la vittoria di Huston, oppure sondano i retroscena dello sport come in Ultimo minuto di Avati. L’arbitro di Paolo Zucca prova a mescolare le due cose e ci riesce.
Due linee narrative che non possono che scontrarsi: quella di un campionato della profonda Sardegna, in cui la rivalità tra due squadre è sintomo di lotte di classe e odi ancestrali, e quella di un arbitro che sta cercando la scalata al successo e al potere personale.
Zucca, assieme a Barbara Alberti, riprendono un premiato cortometraggio di qualche anno fa dello stesso regista e ne cavano una commedia in bianco e nero (stilizzato come la fotografia di Patrizio Patrizi) che pare un western sardo con il calcio al posto della frontiera, il pallone al posto dei proiettili e l’arbitro appunto al posto dello sceriffo, corruzioni comprese.
Zucca racconta i due livelli del calcio all’interno dell’immaginario e della pratica in Italia: gli alti livelli, in cui il potere personale diventa scontro politico e ci impiega un secondo a diventare corruzione, malaffare, crimine, e i bassi livelli, gli scalcinati campetti di periferia che si cibano di tradizioni ancestrali, miti che vivono di luce riflessa, scontri che sublimano quelli di ogni giorno. E tanto l’alto quanto il basso sono lo specchio della società italiana, riflettono sulle contraddizioni e i drammi più o meno piccoli che un gol o un furto arbitrale solo apparentemente cancellano.
Zucca non ha timori reverenziali né nel sottintendere ai piani alti del calcio europeo, echeggiando l’arbitro De Santis, Platini, la Juventus, né nel giocare con uno stile raffinato ed elaborato, volutamente artificioso come le mosse di un convincente Stefano Accorsi, a cui però non mancano gli strappi surreali, come se Ciprì e Maresco si fossero votati all’humour. Meno convincente Geppi Cucciari, un po’ schiava del suo personaggio televisivo, mentre favoloso l’apporto di Benito Urgu, allenatore cieco: il suo discorso alla squadra dopo l’ingiusta sconfitta è trascinante come la versione accattona di quello di Braveheart.
Anche quest’anno ScreenWEEK è al Lido per seguire la 70. Mostra del Cinema di Venezia. Continuate a seguirci per tutti gli aggiornamenti dal Festival.